L’attributo più squalificante, più vergognoso, per un Torinese vecchio stampo, è quello di «artista». Dare a un Torinese dell’artista è peggio che dargli del bandito, quest’ultimo qualche attenuante ce l’ha, è stato abbandonato dai genitori. Ne consegue che un Torinese di buona famiglia che ha la disgrazia di scoprire di avere un temperamento artistico deve tenerlo accuratamente celato, per non incappare nella disistima di parenti e amici.
Il Torinese artista si costruisce prima una rispettabile carriera nelle arti liberali, nell’industria, nelle banche, nell’insegnamento e solo in un secondo tempo lascia affiorare in superficie le sue vere tendenze e incomincia a esibirsi. In un primo tempo quasi mai in pubblico, almeno agli inizi testa le reazioni della ristretta cerchia dei parenti e degli amici. La regola vale anche per chi è nato ad Asti: i fratelli Paolo e Giorgio Conte, discendenti di una illustre famiglia di notai, hanno dovuto all’inizio laurearsi in giurisprudenza ed esercitare per molti anni la professione di avvocati, prima di rivelare al mondo la loro grande bravura di cantautori.
Così capita di essere invitati a cena e di fare la piacevole conoscenza con un giudice o un funzionario della prefettura al quale, dopo il caffè, il padrone di casa rivolge il pressante invito di accostarsi al pianoforte. In alternativa si materializza una chitarra. È il momento delle spiegazioni a favore di chi è, ancora per qualche minuto, ignaro del segreto. Il signor giudice compone ed esegue – nel poco tempo libero che gli rimane dopo aver assolto i suoi doveri – graziose canzonette ispirate a episodi che gli sono realmente accaduti. Perché non ci fai sentire. Ho messo un dito nel tritacarne? Oppure Non è colpa mia se è scoppiato il televisore? Interviene un ospite: «No, è più bella quell’altra che fa Non mi dire che non hai messo il freno a mano». Vi mettete all’ascolto pensando che il signor giudice, se anche non è il primo nella classifica dei cantautori, lo è sicuramente, a giudicare dai titoli, in quella degli sfigati.
Scoprite che gli spettatori non devono limitarsi ad ascoltare, applaudire e complimentarsi ma devono essere parte attiva nell’esecuzione. Se va bene, l’intervento si limita a un coretto con degli «Oh, Oh, Oh» da emettere al cenno dell’esecutore. La fantasia degli artisti repressi è diabolica, è probabile che vi venga richiesto di schiacciare a tempo delle perette da clistere cariche di borotalco o di passarvi un pettine sui denti; si porta molto l’azione scenica, tipo strapparsi un pelo dal naso o eseguire flessioni ginniche.
I cantautori sono in maggioranza ma non dobbiamo dimenticare i poeti. C’è sempre un vicino di posto che ti domanda in tono zelante: «Conosci le poesie del dottor Bianchi? No? Devi assolutamente convincerlo a leggertene qualcuna». Tu che provi rimorsi cocenti per non avere mai trovato il tempo per leggere la Gerusalemme liberata o Il canzoniere di Umberto Saba, ciò nondimeno preghi il dottor Bianchi, ottimo commercialista, di leggere qualche sua composizione, augurandoti che sia un seguace di Giuseppe Ungaretti, della serie due versi sono pochi ma tre sono troppi. Il dottor Bianchi dapprima si schermisce: «A chi volete che interessino i miei poemetti!». (Poemetti? Andiamo bene!)
Gli adulatori insistono: leggici Partita doppia, oppure L’Irpef dell’anima, o meglio ancora Ode al modello 740. Va a finire che il poeta cede alle affettuose insistenze, si alza in piedi, solleva il cuscino dalla sedia sulla quale stava seduto e ne estrae un voluminoso mannello di fogli che teneva lì, pronto per ogni evenienza. Il problema per chi ascolta non è quello di formulare un giudizio sulle poesie – chi se ne frega se sono belle o brutte – ma di non sapere dove posare lo sguardo durante la lettura. Sul bardo che declama no, è troppo vicino, sarebbe come esaminargli le tonsille e a chiudere gli occhi simulando concentrazione c’è il rischio di addormentarsi.
Si finisce per guardare nel vuoto simulando un rapimento estetico a condizione di non intercettare lo sguardo di un’altra vittima per non scoppiare a ridere. Al termine della lettura vi toccherà esprimere poche ma sentite parole di lode e di incoraggiamento. Se, esagerando, dite che varrebbe la pena di pubblicarle, il commercialista poeta ribatterà: «Già fatto». Sotto la sua sedia c’è una borsa piena di copie stampate a sue spese, ne estrae una e sul primo foglio bianco scrive una lunghissima dedica nella quale vi elogia come critico finissimo e animo eletto in grado come pochi di capire e apprezzare le sue poesie.
Uno s’immagina che a Torino gli studi dei professionisti e dei funzionari siano altrettanti giardini di Armida dove musica e poesia fanno a gara per intrecciare ghirlande. Viene da chiedersi: non sarebbe stato meglio permettere al ragazzo di dare libero sfogo alle sue naturali inclinazioni? Al contrario c’è chi sostiene che l’arte migliora quando è scoraggiata. Se è così aumentiamo la dose di repressione.