Apriti testamento

/ 02.05.2017
di Bruno Gambarotta

«A egregie cose il forte animo accendono i testamenti, o lettore di Azione»… Sfruttiamo Ugo Foscolo per parlare di una mostra itinerante di testamenti di grandi italiani del passato. Dicono molto, sia sulla personalità dei testatori che sull’ambiente sociale nel quale hanno vissuto e operato. Molti si dilungano nel dettare le regole dei funerali, ignorando il fatto che, come sottolinea uno dei curatori della mostra, l’apertura del testamento è in genere una cerimonia successiva alle esequie, a giochi fatti insomma. In tutti i casi il pensiero dominante in questi casi è quello di evitare pomposità e sfarzo a una cerimonia che serve ai superstiti come fiera della vanità.

Non sempre le disposizioni sono attuate. Il 9 settembre 1881, nove mesi prima di morire, Giuseppe Garibaldi scrive: «Il mio cadavere sarà cremato con legna di Caprera nel sito da me indicato con asta di ferro. (…) Al Sindaco né a chiunque si parteciperà la mia morte senonché finita la cremazione». Sappiamo com’è finita: funerali solenni a Roma, da 12 anni capitale del regno d’Italia. Le ultime volontà di Luigi Pirandello furono rispettate. Espresse in quattro stupendi e sintetici paragrafi che iniziano con l’intimazione «Sia lasciata passare in silenzio la mia morte». Al quarto: «Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere, perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me». Andrea Camilleri racconta come andò: un’improvvisa folata di vento arrivò dal mare e inondò di ceneri pirandelliane il mesto corteo che, in piedi su una roccia, stava per spargerle in mare. In quanto alla lunghezza si va dai testamenti telegrafici a veri romanzi. Campione di sintesi è Giovanni Pascoli; il 3 aprile 1912, tre giorni prima di morire detta: «Nomino mia erede universale mia sorella Maria detta Mariù». Il legame fra i due era leggendario: dormivano in due stanze separate da un muro sottile, provvisto di un foro per permettere il passaggio di un filo che legava i pollici della mano destra di entrambi in modo che a ognuno fosse sempre possibile durante la notte avvertire la presenza dell’altro.

Fra i legati più lunghi e dettagliati troviamo quello di Giuseppe Verdi; per tutta la sua lunga vita investì i guadagni comprando terre e poderi fino a diventare un grande proprietario terriero, quasi per riscattare le misere condizioni della sua nascita. Una discreta parte del suo epistolario – più di 20mila lettere – contiene istruzioni ai suoi fattori per la gestione delle imprese agricole. Il 20 maggio 1900, pochi mesi prima di morire il 27 gennaio 1901, il grande musicista destina le sue proprietà, una per una, ad enti benefici, privilegiando la Casa di Riposo dei Musicisti di Milano. Da Giuseppe Gioacchino Belli, l’immortale autore dei 2200 sonetti in romanesco, non ci aspetteremmo toni drammatici. È incalzato dal timore di «essere prevenuto dalla morte senza aver disposto delle mie cose e provveduto alla futura sorte del mio carissimo figlio Ciro, costituito e presente in età pupillare e già orbato di madre». Redige il testamento il 18 agosto 1837, «negli attuali momenti in cui il flagello del Colera asiatico principia a percuotere questa città». La sua paura è giustificabile poiché, nato il 7 settembre 1791, Belli perse il padre nel 1802 in un’epidemia di colera; orfano all’età di 11 anni fu affidato agli zii. Perciò vuole prevedere un tutore per il figlio che si trovasse ancora nella minore età «accadendo la mia morte nella presente o in una futura calamità pubblica». Ancora non gli basta «imprevedibile essendo il numero e le persone delle vittime di un popolare contagio». Perciò «potrebbe sventuratamente perire altresì colui che io nominassi a detta tutela, ed anche un altro e un altro che chiamassi a succedergli». Di conseguenza ne nomina ben dieci, destinato ciascuno a succedere al precedente nella classifica. Per la cronaca Belli sarebbe poi morto nel 1863, 26 anni dopo e tutto quel corteo si sarebbe per fortuna rivelato un’inutile precauzione (Almaviva, ossia L’inutile precauzione era il titolo originario de Il Barbiere di Siviglia, adottato per non urtare la suscettibilità degli ammiratori di Paisiello autore 26 anni prima di un Barbiere).

I dettagli dei testamenti svelano il carattere degli estensori e la loro pretesa di guidare le vite degli altri anche dall’aldilà. Il generale Alfonso La Marmora nomina erede il nipote Tommaso e in particolare gli assegna la considerevole somma di lire 2 milioni (nel 1876!) «nel solo caso e non altrimenti che esso abbia figli legittimi e che questi a lui sopravvivano e possano succedere alla sua morte, nel capitale stesso». Alcuni si preoccupano di trovare un erede per ogni quisquilia. Giuseppe Zanardelli scrive: «Lascio all’avvocato Fausto Massimini uno degli anelli che porto» e poi «Lascio a Gerardo Lana l’altro degli anelli che porto». Molti prevedono un qualche lascito per la servitù, a condizione che le persone siano ancora al servizio della casa al momento del trapasso. Scrive il conte di Cavour: «Lascio al mio cameriere Vedel l’intero mio guardaroba con tutti gli abiti e la biancheria». La storia non ci dice se questo cameriere avesse la stazza di una botticella come il suo padrone. Un valletto di Carlo d’Inghilterra ha l’incarico di spalmare il dentifricio sul suo reale spazzolino. Un giorno che ci auguriamo lontanissimo quello spazzolino andrà in eredità al valletto.