All’inizio erano gli applausi. In primavera, quando ancora ci muovevamo nell’ottimistica bolla color arcobaleno dell’«Andrà tutto bene», si usciva sul balcone o davanti alla porta di casa e si dedicava un applauso sentito a infermiere e infermieri, a chi, in modo indefesso, stava conducendo una battaglia all’ultimo respiro nel vero senso della parola contro un nemico nuovo e pericoloso, per curare e salvare le nostre care e i nostri cari.
Gli applausi, nel nulla ovattato che era diventato il nostro teatro del mondo, erano rivolti per una volta non ad attrici e attori, cantanti e artisti (tristemente costretti all’immobilità), ma a gente comune, come la vicina della porta accanto, infermiera di pronto soccorso, o un lontano cugino, specializzato in cure intense. Noi battevamo le mani perché, pur essendo in lockdown, almeno potevamo proteggerci in casa, mentre loro erano costretti a lavorare in corsia con l’ingombro della tuta da palombaro e l’affanno della mascherina.
Agli applausi erano seguite collette e raccolte fondi, e di colpo l’opinione pubblica aveva cominciato a guardare alla professione infermieristica con occhi nuovi, riconoscendone il potenziale, ma soprattutto l’indispensabilità, in un contesto afflitto cronicamente da carenza di personale. Sui muri delle case erano apparsi capolavori di street art che esaltavano la preziosità della professione, mentre sui tavoli della politica si era ritornati a parlare dell’iniziativa lanciata dall’Associazione svizzera delle infermiere e degli infermieri «Per cure infermieristiche forti», il cui controprogetto è stato recentemente oggetto di un rimpallo tra le Camere. Si erano addirittura lanciate ipotesi di adeguamento salariale.
Tutto questo nientemeno che nell’Anno internazionale dell’infermiera, durante il quale si sarebbero dovuti celebrare i duecento anni dalla nascita di Florence Nightingale, la visionaria inglese considerata la fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna.
Ora che siamo nel pieno della seconda ondata, con i nuovi contagi giornalieri che sono ormai nell’ordine di cifre a quattro zeri, non applaudiamo più. Eppure, infermiere e infermieri si ritrovano esattamente dove li avevamo lasciati in maggio. Sono spossati dai turni, dalla mole di lavoro, sono preoccupati per l’evoluzione della pandemia, per il numero di posti letto disponibili e forse, da ultimo, anche per la propria salute e quella dei propri cari.
Non li possiamo più applaudire, perché magari abbiamo provato una punta di vergogna per quell’aperitivo con gli amici in una casa privata o per la crociera sul Reno con intrattenimento musicale. Ci siamo resi conto che avremmo potuto essere più moderati nell’esprimere il nostro amore per la vita e la gioia del ritorno alla normalità.
Ora infermiere e infermieri, che dicono di sentirsi abbandonati e delusi, si mobilitano con azioni di protesta e, paradossalmente, nello stesso momento, si levano voci che chiedono di avvalersi del personale curante anche qualora risultasse positivo al Covid, sottolineando così una volta di più la mancanza di risorse umane.
Nei prossimi mesi il dibattito intorno ai vari temi sul tavolo delle discussioni di questa professione sarà soprattutto politico. A noi, che non possiamo più affidarci alla rassicurante e benefica sensazione di ringraziare con un applauso, resta da fare l’unica cosa per la quale il personale curante ci sarà grato, e cioè seguire pedissequamente le raccomandazioni delle autorità per limitare al minimo i contatti, nel segno di un rispetto e di una considerazione che saremo sicuramente capaci di sviluppare. Glielo dobbiamo.