Il 2018 sarà un anno speciale nella vita dell’Altropologo. Cadrà infatti il decennale dalla prima apparizione del medesimo su queste pagine. Di più, in chiave celebrativa, quando (e se!) conquisteremo il traguardo di settembre, scadenza cronologica dell’anniversario. Ma il 2018 è data storica anche perché – con giubilo dei suoi lettori – l’Altropologo è finalmente diventato virale. Esiste, ovvero, nella forma più piena dell’esistenza – quella mediatica. Sì, poiché nell’era geologica del Mediacene che segue, com’è noto, Neocene e Pleistocene, altra forma di esistenza non è data se non in quella forma di vita non-reale manifestatasi prima nel cartaceo, quindi nel telegrafaceo e dunque nel televisivo – per poi svilupparsi nelle glorie del virtuale.
Già i più attenti esploratori dell’universo mediatico avevano avuto il sospetto che qualcosa stesse per succedere quando, nel 2015, fu pubblicato quel best seller a cura di Paolo Nori che ha per titolo Repertorio dei Matti della Città di Bologna. Qui, a firma di Mauro Orletti, si (s)parlava di uno squinternato antropologo bolognese finito fra i Dayaki tagliatori di teste del Borneo con lo scopo di convertirli/riciclarli al taglio della mortadella – o qualcosa di simile. Erano peraltro costoro già stati allertati qualche anno prima. Deboli tracce in forma di onde radio captate nell’etere e trasmesse da un’emittente localizzata nelle cantine delle Due Torri – che peraltro si faceva chiamare Radio Città del Capo – avevano rivelato al mondo l’esistenza di un certo Professor Furio de’ Veloppi, docente al corso di Antropologia dello Sviluppo (Development Anthropology, in inglese) dell’Alma Mater bolognese. Dalle profondità della Groenlandia il professore antropologo vaneggiava di essere furiosamente impegnato in un progetto di sviluppo che prevedeva la diffusione del gelato presso gli Inuit (un tempo esquimesi, ma oggi si dice così per il politically correct) in lungimirante previsione – pensate – del riscaldamento globale. Insomma, i più scaltri scrutatori futurologi già avevano sospettato che – prima o poi – quelli che sembravano solo episodici indizi si sarebbero prima o poi concretizzati – ben sempre virtualmente, s’intende – nella figura dell’Altropologo.
Altropologo: s.m. Individuo di inscalfibile indolenza che, invece di dedicarsi assiduamente allo studio approfondito dell’antropologia, si dedica ad altro.
La definizione si trova in rete (www.ilcalidrino.it) come uno dei primi lemmi del Calidrino, che si definisce «...piccolo dizionario anomalo di neologismi creati per descrivere cose che esistono ma non hanno nome e cose che hanno un nome ma non esistono». Andremo più tardi a scrutare nei dettagli l’autodefinizione del Calidrino, ma ora dobbiamo chiederci se – o meno – l’Altropologo in questione sia o meno l’Altropologo realmente esistente o chi/quant’altro. In web conducono esistenza virtuale almeno due suddetti personaggi: l’Uno, che si manifesta cartaceamente sul vostro settimanale preferito da una decina d’anni ed un Altro che – a quanto pare – è apparso fra il 2014 ed il 2015, si chiama/fa chiamare Joe Barba, vive in Valsugana (Trentino) dove si fanno ottimi salami e – dice – fa di mestiere l’Altropologo (da notare un particolare cruciale: non corsivizza la prima «l»).
Dunque: chi è il vero Altropologo? E di chi parla veramente il Calidrino? Il dibattito sulla diffusione dei tratti culturali o della loro origine indipendente è un classico della storia dell’antropologia. Da Franz Boas ad Alfred Kroeber e tanti altri ci si è domandato se il fuoco sia stato inventato una sola volta – per poi diffondersi... come il fuoco – oppure se sia stato inventato qua e là per poi spegnersi e ricominciare altrove. Insomma, la storia insolubile dell’acqua calda. Per fortuna con l’Altropologo le cose sono più semplici: è attestato nei formati «cartaceo» e «virtuale» dal settembre 2008 e deve pertanto essere considerato a tutti gli effetti l’Ur-Altropologo, l’Altropologo originale – che scritto in tedesco suona più autorevole. Ma quanto taglia la testa al toro e mette tutti in pace è che nessuno – questo lo garantisco – è, può essere e mai sarà tanto più indolente del Vostro. Con la specifica, a quanto sembra sfuggita al Calidrino , che soltanto l’indolenza apparente – lo stato ovvero per il quale uno pare non interessarsi a nulla di normale e quotidiano – acuisce per contrasto l’interesse per quanto è Altro rispetto al normale ed al quotidiano. E da qui, solo da qui – insisterei – da questa assidua anomala pratica, la capacità di rendere il famigliare esotico e l’esotico famigliare – che è poi l’essenza dell’antropologia.
E il Calidrino? Il suo Autore specifica che il termine è costruito da una combinazione del latino calidus e del greco hydōr, acqua e dunque – cito da www.frizzi-frizzi.it «letteralmente l’invenzione dell’acqua calda»: ipsissima verba. Domanda: quale forma di inscalfibile indolenza può mai superare quella che spinge ad inventare e reinventare l’acqua calda fino a farne un dizionario? Chi di Calidrino ferisce...