Anna, Serhji, la realtà

/ 04.04.2022
di Paolo Di Stefano

Se qualcuno non ha letto La Russia di Putin di Anna Politkovskaja quando uscì da Adelphi nel 2005, può leggerlo adesso più comodamente ripubblicato in edizione tascabile. Il 7 ottobre 2006 la giornalista del giornale moscovita «Novaja Gazeta» fu uccisa con quattro colpi di pistola, uno in testa. Era il giorno in cui Putin compiva 54 anni e qualcuno sostiene, con ottime ragioni, che quello fu il suo regalo di compleanno. La settimana scorsa il Cremlino ha ordinato di chiudere il più famoso giornale indipendente russo su cui scriveva Anna Politkovskaja e su cui scriveva il premio Nobel per la Pace Dimitri Muratov.

Letto oggi, alla luce della guerra in corso, La Russia di Putin, risulta ancora più agghiacciante e spiega il terrore, le torture, le guerre sanguinose a scopo personale, il carcere e il veleno per gli oppositori, eccetera. Scrive la Politkovskaja: «Siamo solo un mezzo, per lui. Un mezzo per raggiungere il potere personale. Per questo dispone di noi come vuole. Può giocare con noi, se ne ha voglia. Può distruggerci se lo desidera. Noi non siamo niente» (niente voti d’aria né d’acqua né, tanto meno, di fuoco). La giornalista definiva il suo libro non un’analisi politica ma un «libro di appunti appassionati» sulla vita a Mosca, a San Pietroburgo, in Cecenia, in Siberia, eccetera: «Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo». Si può dunque morire perché si scrive ciò che si vede. Infinite sono le storie raccontate, alcune di una brutalità impressionante, ma non c’è invenzione, Politkovskaja ha davvero visto ciò che raccontava: i massacri, i pianti, certe decapitazioni in Cecenia, le morti per fame e per assideramento, la terribile strage di Beslan, i genitori straziati dopo l’eccidio nel teatro Dubrovka che la televisione di Stato ha completamente offuscato.

Giustamente, Mattia Feltri (5½), nella rubrica Buongiorno sulla «Stampa», fa notare che quel libro spaventosamente esplicito è uscito poco prima che Putin venisse incoronato per la seconda volta: e quando fu eletto, ricevette il plauso se non l’entusiasmo di Blair, Berlusconi, Chirac, Schroeder, Bush jr: quasi tutti, ricorda Politkovskaja, erano andati a omaggiare l’«imperatore» per il tricentenario di San Pietroburgo, le cui facciate vennero tinteggiate per l’occasione in modo sconsiderato a beneficio degli illustri ospiti.

È probabile che i lettori di «Azione» abbiano già letto mille volte queste cose, ma vale la pena ripeterle a scanso di amnesia. Quando si dice: per non dimenticare… Ecco, il consiglio è di leggere La Russia di Putin. Ma anche uno scrittore ucraino come Serhji Žadan, performer, poeta, polemista, cantautore classe 1974, che da oltre un mese è impegnato a difendere il suo paese. La casa editrice Voland, di Roma, ha tradotto tre suoi romanzi: Mesopotamia, La strada del Donbas, Il convitto. Quest’ultimo (5+) è l’attraversamento di una città mentre infuria la guerra tra spari, macerie, morti e fame: siamo nel 2015 e il protagonista, un insegnante, deve andare a recuperare il nipote epilettico in un convitto per riportarlo a casa. Ci vogliono tre giorni perché riesca a portare a termine la sua missione angosciosa, una sorta di tragica odissea joyciana. Sia pure così diversi tra loro, Politkovskaja e Žadan ci invitano, anche, a una seria riflessione sulla letteratura cosiddetta di realtà. Che cosa significa racconto di realtà, di cui tantissimo si parla in questi anni? Significherebbe raccontare spostandosi dalla scena e lasciando spazio alle persone o ai personaggi.

Non c’è una sola pagina di Politkovskaja o di Žadan che faccia sorgere il dubbio di una loro esibizione narcisistica dentro la narrazione: è troppo urgente il racconto delle storie altrui per pensare a sé stessi. Se c’è l’io, è un io che miracolosamente scompare in mezzo alla folla, non ha mai nulla di autocelebrativo o di compiaciuto. Ecco cosa manca ai tanti cosiddetti «racconti di realtà» che leggiamo dalle nostre parti: la voglia di fare un passo indietro dalla scena narrata. Provate a leggerli. Un ego esorbitante, traboccante a ogni riga.

Intendiamoci, non sto negando la legittimità del romanzo autobiografico, che ha una tradizione gloriosa: sto parlando di un’opera che si presenta come il racconto di una realtà che scorre sotto i nostri occhi, a cui partecipiamo, di cui siamo testimoni ma di cui non siamo gli attori protagonisti.