Un’iniziativa popolare, recentemente respinta dal popolo svizzero, intendeva incoraggiare gli allevatori a non recidere le corna al bestiame. Questa iniziativa – giudicata eccessiva o sproporzionata dagli elettori – rimane comunque significativa di un’evoluzione etica che, specialmente nell’ultimo secolo, ha profondamente modificato la nostra coscienza morale.
Oggi si parla comunemente di «diritti degli animali», ma il percorso che ha condotto a questa convinzione inizia solo nel secondo dopoguerra: a Londra, nel 1977, un’apposita Lega ha adottato una Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Animale che riconosce all’animale dei diritti e li universalizza, analogamente a quanto fatto per l’uomo nel corso degli ultimi due secoli. Inutile dire che parlare di «diritti degli animali» al tempo di Aristotele, o di Dante, o ancora di Kant, avrebbe suscitato il riso e fatto giudicare folle il sostenitore della tesi. È pur vero che già nell’antichità la filosofia stoica, analogamente a quanto sostenuto da religioni orientali come il giainismo, il buddhismo e l’induismo, riconosceva l’obbligo morale di non causare dolore a qualsiasi essere senziente; il biblico «Non uccidere» si riferiva soltanto agli umani, mentre l’antico principio indiano della non violenza si estende a ogni creatura senziente; all’uomo il Dio biblico garantisce il diritto di dominare con il terrore su tutti gli animali della terra.
La cultura occidentale non ha mai dato gran peso alla sofferenza animale: è vero che filosofi come San Tommaso d’Aquino o Kant esortavano a mostrare bontà di cuore verso gli animali, ma non per rispetto nei loro confronti, bensì solo perché «chi usa essere crudele verso di essi è altrettanto insensibile verso gli uomini». È dunque solo per riguardo all’uomo che la tendenza umana verso forme di crudeltà andrebbe impedita anche nei confronti degli animali.
Del resto, la nostra cultura ha sempre esaltato la superiorità dell’Homo sapiens affermando una distanza abissale tra lui e gli altri essere viventi. Ciò che è nettamente inferiore non merita alcun rispetto né alcun riconoscimento di dignità: è stato così per secoli e secoli non solo riguardo agli animali, ma anche riguardo agli schiavi e alle donne, considerati – secondo la formula di Aristotele – uomini mancati, imperfetti. Poi, con l’Illuminismo e con il progredire della civiltà moderna queste convinzioni balorde (che peraltro per un paio di millenni sono state ritenute verità indiscutibili) sono state clamorosamente smentite e quindi rifiutate. Anche la pretesa superiorità della specie umana sulle altre specie animali è stata clamorosamente ridimensionata: non solo perché la teoria evoluzionistica, da Darwin in poi, ha reso evidente la nostra parentela con le scimmie antropoidi, ma anche perché i più recenti studi di etologia mostrano in molti animali forme di intelligenza e modalità di comportamento che in passato si ritenevano esclusivamente umani. L’autocoscienza – o la consapevolezza di sé – che in passato veniva negata agli animali, ora è riconosciuta nei primati e nei delfini; ci sono pappagalli che passano le giornate a giocare in gruppo e che sono capaci di sfruttare qualunque oggetto a fini ludici con una creatività tuttora inspiegata; parecchi studi hanno dimostrato nelle scimmie un senso innato della giustizia; e, sempre nelle scimmie, è stato possibile osservare comportamenti che dimostrano altruismo e amore del prossimo. Insomma, noi umani non siamo superiori in senso assoluto: abbiamo solo sviluppato maggiormente caratteristiche e abilità che condividiamo con altre specie. E anche quell’autocoscienza della quale andiamo orgogliosi non costituisce un limite invalicabile: come ha scritto Peter Singer (teorico della liberazione animale e professore di bioetica), feti, neonati e malati di Alzheimer in stadio avanzato hanno meno coscienza di un cane. Ci sono dunque ottime ragioni per estendere agli animali almeno uno dei princípi etici che valgono per noi umani: «Non infliggere dolore». Nel caso della sperimentazione medica e farmacologica sugli animali, ad esempio, sta prevalendo l’idea che esperimenti dolorosi siano consentiti solo se ritenuti assolutamente necessari. Ed è opportuno dire che la legislazione elvetica, in proposito, è tra le più avanzate, anche se consente la rescissione delle corna degli animali d’allevamento. Non credo comunque che questa pratica comporti molta sofferenza; probabilmente è più grande il dolore di mogli e mariti ai quali il coniuge ha «messo le corna». Ma a questo non c’è rimedio.