A Roma, lungo il viale alberato che sale da Trastevere verso la sommità del colle Gianicolo (l’ottavo di Roma, fuori dall’elenco-filastrocca che imparavamo a memoria), c’è un monumento razionalista che ricorda il Colosseo Quadrato dell’EUR: un tempietto di travertino bianco, coi lati a portico alleggeriti da tre arcate a tutto sesto. È cinto su un fianco da una balaustra e vi si si accede salendo una gradinata. Sui pilastri, imponenti bracieri di bronzo, accesi solo in ricorrenze speciali. All’interno, come nella cella del tempio, un’ara di granito rosso, decorata con simboli romani (la lupa, l’aquila, il gladio). È poco visitato – forse perché, inaugurato nel 1941, ha un’aria fascista. Forse perché ha un nome triste e funebre: Mausoleo Ossario Garibaldino.
La costruzione – realizzata solo 63 anni dopo la legge promossa da Garibaldi e dal figlio Menotti che ne riconosceva la necessità, e solo grazie alla tenacia del figlio di Menotti, Enzo – ospita, nel sacrario posto sul retro, i resti di circa 1600 morti. I loro nomi sono ricordati sulle lapidi che chiudono i loculi, anche se di molti si trovarono solo frammenti. Dopo la fine della Repubblica, i francesi vietarono di raccogliere i corpi dei nemici. La maggior parte erano giovani venuti da ogni regione d’Italia (ma anche stranieri) per difendere la Repubblica Romana dall’esercito dei Borboni, che premeva da sud, e dall’esercito francese, sbarcato a nord, a Civitavecchia, nell’aprile del 1849, con migliaia di uomini e cannoni per restaurare il dominio del papa (in verità l’ossario raccoglie anche i resti dei caduti per la libertà di Roma fino al 1870).
Nella primavera del 1849 la Repubblica Romana era già – insieme a Venezia – l’ultimo ancora libero degli stati democratici nati dalle rivoluzioni del 1848, altrove represse nel sangue. Fra loro c’è Mameli (però ospitato in un sepolcro a parte), ci sono eroi notissimi come Francesco Daverio, Luciano Manara ed Enrico Dandolo, ed eroine riscoperte più di recente, come Colomba Antonietti Porzi e Giuditta Tavani Arquati. E poi c’è lui, Andrés Aguyar (Aguiar in America latina): un nero – anzi un moro, come si diceva allora – che lottò per la libertà d’Italia e la propria.
Era uruguayano, schiavo figlio di africani schiavi (la schiavitù in Uruguay sarebbe stata abolita solo dopo la guerra civile e la proclamazione della Repubblica). Era servitore nella famiglia del generale Félix Eduardo Aguiar. Non sappiamo come si guadagnò la libertà: forse, come cinquemila suoi compagni, entrando nell’esercito per combattere alla difesa di Montevideo. Aveva il ruolo di domatore di cavalli. Non sapeva né leggere né scrivere ma era un cavaliere provetto, e abilissimo a usare lancia e lazo. Le principali informazioni sulla sua vita le hanno fornite Alexandre Dumas (Memorie di Garibaldi, 1860), che ne esalta la fedeltà e il coraggio e che dovette interessarsi a lui perché a sua volta figlio di un ufficiale mulatto, e l’uomo di cui divenne prima domestico, poi assistente e infine amico: Giuseppe Garibaldi, nella versione delle Memorie che curò lui stesso. La verifica delle fonti è ardua: dunque la sua figura resta avvolta da un alone di leggenda.
Di certo, si unì alla Legione italiana di Garibaldi (che dal Brasile e dall’Argentina era passato in Uruguay), insieme a due compagni rimasti non identificati: il moro Costa e il negro di Marquez. Combatté – per terra e per mare (Garibaldi guidava anche le operazioni navali) – e poi seguì Garibaldi a Montevideo, dove si era stabilita la giovane moglie Anita e i loro bambini. Ne avevano già due: Menotti Domingo (nato il 16 settembre 1840) e Rosita (nata il 30 novembre 1842, sarebbe morta il 23 dicembre 45); altri due si aggiunsero (Teresita, il 22 febbraio 45, e poi Ricciotti, nato il 24 marzo1847). Aguyar si occupava del padre, della madre e dei bambini, per i quali era uno di famiglia. Partì con loro per l’Italia all’inizio del 1848 sulla nave Carolina. Partecipò, con Garibaldi, alle battaglie di Luino e Morazzone durante la prima guerra di indipendenza italiana. Gli salvò più volte la vita.
Molti testimoni oculari lo descrivono accanto a Garibaldi nei giorni epici della resistenza, a Roma. Avvolto in un mantello nero, nel pugno una lancia alla cui estremità sventolava un drappo rosso. Erano colpiti dal colore della sua pelle, che spiccava vicino al bianco del cavallo di Garibaldi.
(1 – Continua)