Andare a Canossa

/ 27.01.2020
di Cesare Poppi

Una recente ricerca di alcuni colleghi di un’università americana, una di quelle dove sembra si riescano a trovare i fondi per effettuare indagini che altri altrove manco si sognerebbero, certifica come la conoscenza della Storia da parte dell’Americano Medio sia piuttosto lacunosa. Bella scoperta, si direbbe da questa parte dell’Atlantico, dove invece fa parte della conoscenza storica comune ad esempio il fatto che gli Americani la storia non la conoscono. Ma non è tutto. Quel che è più interessante è che spesso ciò che conosciamo del passato sono modi di dire, frasi celebri, motti proverbiali, «titoli di testa» di un ipotetico quotidiano eterno e universale che però molti farebbero fatica ad inserire correttamente nella cronologia delle res gestae dell’umanità. Dal «Il dado è tratto», «Parigi val bene una messa», «Il mio regno per un cavallo», «Toh, ci sei anche tu, Bruto?!», «Passare il Rubicone», «Vittoria di Pirro», – al controverso non proprio «accipicchia!» di Cambronne a Waterloo, si sgrana un lungo repertorio che intreccia le nostre biografie con quelle dei protagonisti della Storia.

Chi di noi, ad esempio, non è mai «andato a Canossa»? Proviamo ad immaginarci quella notte del 28 gennaio 1077. Al castello della Contessa Matilda infuria un bufera come poche. Alle sue porte un gruppo di persone intirizzite dal freddo – cavalieri, soldati, monaci, servitori, cavalli, muli… Sono saliti fin quassù, nell’Appennino Reggiano, al termine di un viaggio che li ha visti girovagare per mezza Europa a partire dalla Germania, costretti a scansare le terre dei Baroni in rivolta contro l’Imperatore Enrico IV per valicare le Alpi al Passo del Moncenisio, uno dei percorsi al tempo più difficili. I Baroni gongolavano: quale occasione sarebbe mai capitata di nuovo di dare una lezione ad un Imperatore impegnato, come tutti i suoi predecessori e tutti i loro successori, a tenere sotto controllo un’aristocrazia rapace, irrequieta e complottarda? Ora o mai più: Enrico era l’anatra zoppa della situazione dopo che Papa Gregorio VII lo aveva scomunicato, gesto per il quale chiunque nella Cristianità aveva virtualmente il diritto di trattarlo come un cane randagio. Materia del contendere, il diritto rivendicato dal Papa con la Bolla Dictatus Papae di avocare a sé e soltanto a sé la prerogativa di eleggere i vescovi che fino ad allora dovevano guadagnarsi l’investitura dell’Imperatore per esercitare con piena legittimità la loro missione pastorale.

Va da sé che un Imperatore in possesso delle sue facoltà mentali mai e poi mai avrebbe rinunciato al controllo della potente gerarchia ecclesiastica che gli veniva dall’essere anch’egli coinvolto in prima linea nella legittimazione dei suoi poteri: insomma, all’inizio del secondo Millennio la lotta per le investiture stava ancora spaccando a metà un’Europa divisa fra Imperiali e Papali. A scatenare l’ira di Gregorio – perfettamente consapevole che un Imperatore scomunicato poteva anche diventare una scheggia impazzita del sistema – era stata la mossa di un altrettanto inferocito Enrico che aveva incassato la lealtà dei Vescovi di sua nomina e dunque sotto il suo controllo. Questi si erano espressi contro il tentativo di Gregorio di revocare il diritto di nomina all’Imperatore. A motivare i vescovi era stata un’anomalia nell’elezione del Papa che aveva minato alle fondamenta il loro potere di controllo (e di cronico complotto contro il Papato, diciamolo pure, tanto per aggiornare).

Gregorio VII era nato da un’umile famiglia ed era sostanzialmente estraneo alle lotte curiali. Era stato eletto papa a furor di popolo dai Romani quando non era nemmeno consacrato sacerdote. La sua nomina era stata pertanto solo successivamente ed a malincuore ratificata dal Conclave che non era stato in grado di pilotarla. Insomma, quando Enrico IV chiese le dimissioni del Papa a causa dell’irregolarità della sua elezione in forza della Bolla In Nomine Domini del 1059, Gregorio VII rispose picche e calò forse suo malgrado l’asso della scomunica. Enrico aveva però fatto i conti senza l’oste, anzi L’Ostessa, nella persona di quella formidabile Matilde di Canossa che, con un’abilissima (e fortunata) carriera di matrimoni, vedovanze ed abili manipolazioni delle bizantinissime regole di successione alle fortune di mariti e parenti morti al momento giusto, aveva accumulato terre, onori – ed una fama da far tremare i polsi a chiunque. In conflitto con l’Imperatore come gli altri Baroni, la Contessa invitò un Gregorio isolato e spaurito a chiudersi nel di lei avito castello. E lì attendere, al calduccio, che un Imperatore scalzo e infreddolito decidesse che forse era meglio finisse tutto a tarallucci e vin brulè… Ma questa è storia che conoscono anche gli Americani.