Ancora sul «disallineamento»

/ 20.06.2022
di Angelo Rossi

La società liberale dei due secoli passati considerava la realizzazione di condizioni di partenza uguali per tutti come una delle principali premesse del suo concetto di libertà. Di qui l’enorme importanza che i suoi rappresentanti politici davano e danno alla formazione e, in particolare, alla formazione professionale. Chi scrive ha vissuto così a lungo da ricordarsi ancora i tempi in cui, da noi, il 10-15% dei giovani e il 30% delle giovani che terminavano la scuola dell’obbligo restavano privi di qualsiasi formazione professionale ed erano obbligati alla manovalanza perpetua. Nella seconda metà del secolo scorso, grazie agli sforzi della Confederazione, del Cantone e delle Associazioni padronali, la formazione professionale ha fatto passi in avanti da gigante tanto che, oggi, l’annuale campagna per il reclutamento di apprendisti è diventata un tema di attualità importante ed è seguita con attenzione da tutti i media. Per ogni apprendista, acquistare competenze professionali specifiche significava poter ambire a un posto remunerato e sicuro e quindi poter ampliare il suo grado di libertà nella scelta della carriera professionale.

Nel corso degli ultimi 30 anni, importata dai paesi anglosassoni e da quelli scandinavi, si è poi manifestata una seconda tendenza: quella a far crescere la quota delle persone con formazione a livello terziario, ossia degli universitari. Chi argomenta in favore di questa tendenza sostiene di solito che sono i cambiamenti nel modo di lavorare, dovuti al progresso tecnico, in particolare alla digitalizzazione dei processi lavorativi, alla robotizzazione e ai progressi dell’intelligenza artificiale che impongono un significativo aumento della quota di lavoratori con formazione terziaria. Altrettanto importante è il fatto che i lavoratori con formazione universitaria erano, di solito, meglio remunerati di quelli con formazione a livello secondario. Le tendenze in atto nella formazione professionale, ai livelli secondario e terziario, sono punti di partenza importanti per la riflessione sulla possibile evoluzione futura. Questo perché nella realtà dei mercati del lavoro le stesse si scontrano spesso con situazioni contraddittorie.

A questo proposito ricordiamo che, stando ai risultati di una recente analisi fatta dai ricercatori della SUPSI Garzia e Slerca, questo sembra essere in particolare il caso del mercato del lavoro ticinese. Nei prossimi 5 anni dovrebbero affluire sul mercato del lavoro ticinese circa 28’000 nuovi lavoratori mentre il fabbisogno di nuovi lavoratori dovrebbe variare, a seconda degli scenari tra le 33’000 e le 46’000 unità. A prima vista, quindi, tutti i nuovi lavoratori dovrebbero trovare un’occupazione anche nel caso di un eventuale rallentamento dell’economia. Purtroppo non sarà così e questo perché diverse centinaia di nuovi lavoratori affluiranno con una formazione «disallineata», che purtroppo non sarà richiesta dal mercato del lavoro cantonale. Di conseguenza nel prossimo quinquennio potremmo vedere, come è già successo negli ultimi anni, da un lato l’emigrazione di giovani formati a livello universitario e dall’altro un’immigrazione supplementare di frontalieri tra le 5000 e le 10’000 unità che andrà a soddisfare, se le previsioni di Garzia e Slerca dovessero confermarsi, soprattutto le richieste di manodopera senza qualifiche specifiche.

Quindi, l’economia ticinese avrebbe bisogno, nel prossimo futuro, soprattutto di lavoratori poco qualificati che non ritroverà tra le file dei nuovi laureati nonché dei giovani e delle giovani che termineranno il loro apprendistato durante il quinquennio in questione. Questa è la sostanza del problema del disallineamento. Pensare che per eliminare il disequilibrio sarebbe auspicabile che il numero dei laureati diminuisse e quello dei giovani senza formazione professionale aumentasse non rappresenta certamente una soluzione del problema, anche se oggi i valori della vecchia società liberale sembrano sempre più disattesi. In effetti, fare il lavapiatti invece che diventare ingegnere è un’alternativa che nessuno dei giovani e delle giovani che terminano la scuola dell’obbligo, con esiti che consentirebbero loro di continuare gli studi, o di fare un apprendistato, sarebbe disposto a scegliere proprio per le ragioni che abbiamo esposto qui sopra. E tanto meno glielo raccomanderebbero i loro genitori.

Se il fabbisogno in nuovi lavoratori senza qualifiche speciali non potrà essere coperto dalle nuove generazioni di lavoratori residenti è inevitabile che lo stesso dovrà essere soddisfatto aumentando i flussi di lavoratori in entrata da fuori Cantone e, in particolare, di lavoratori stranieri. Prendendo posizione sui risultati della ricerca SUPSI, il consigliere di Stato Manuele Bertoli, ha messo in evidenza che il problema del disallineamento è determinato dalle caratteristiche dell’economia ticinese nella quale, aggiungiamo noi, la richiesta di lavoratori con bassa remunerazione e senza formazione specifica è ancora forte, e non dalle tendenze di sviluppo del sistema di formazione professionale. L’Associazione degli Industriali Ticinesi, che ha promosso lo studio della SUPSI, ha preso lo spunto dai suoi risultati per muovere una serie di appunti, critiche e proposte di modifica al sistema della formazione. Senza entrare nello specifico, si può però affermare che nessuna riforma del sistema di formazione professionale potrà porre rimedio al disequilibrio che si manifesta sul mercato del lavoro ticinese tra fabbisogno e offerta nei rami che non richiedono ai loro lavoratori qualifiche specifiche.