Forse era inevitabile che ciò accadesse, ma il fatto che ogni descrizione della realtà continui a ruotare, comunque e sempre, attorno al tema della pandemia potrebbe alla lunga rendere più difficile la comprensione di ciò che stiamo vivendo.
Ogni aspetto problematico del nostro vivere e convivere tende ad essere interpretato alla luce di questa persistente emergenza, trascurando così il fatto che tante fragilità, seppur esasperate dalla difficile situazione, abbiano avuto origine proprio in quella normalità oggi tanto rimpianta ed invocata.
Non mi riferisco alle forzature con cui le reazioni violente alle restrizioni vengono ricondotte alla pandemia. È evidente, ed è stato già opportunamente osservato, che il problema della violenza, giovanile e non, pesca molto più in profondità, oltre i confini della situazione contingente.
Meno evidente, mi pare, è il fatto che la pandemia abbia fatto affiorare, a volte esasperandole, molte altre fragilità già presenti nella nostra società cosiddetta normale. La nostra normalità, che oggi appare tristemente perduta, non è quasi mai messa in discussione. Al contrario, spesso viene idealizzata con nostalgia: tornare alla normalità sembra ormai un bellissimo miraggio.
È vero, alcune esperienze dolorose derivano direttamente da ciò che sta accadendo da più di un anno. Le sofferenze per la malattia o per la perdita di persone care, innanzitutto. Poi le sofferenze e le preoccupazioni legate ai problemi economici che hanno investito molte categorie di lavoratori.
Mi si dirà che anche il malessere per la mancanza di momenti di condivisione, nella scuola in primis, e nelle attività sportive e culturali, può essere direttamente ricondotto alle forme di confinamento. Vero, tuttavia queste esperienze, vissute nell’ordine della mancanza di relazioni, hanno fatto affiorare fragilità già latenti. Il modo in cui abbiamo reagito alle difficoltà racconta il nostro modo di stare al mondo, con o senza virus, già prima insomma che tutto ciò ci arrivasse addosso.
L’insofferenza di molte persone che si sono sentite private delle loro libertà, ad esempio, la dice lunga sul modo di percepire la libertà: una proprietà privata di permessi garantiti, a cui nessun potere dovrebbe avere il diritto di farmi rinunciare. E che cosa racconta il presunto bisogno di socializzazione in grandi assembramenti se non l’incontro di tante solitudini, monadi isolate ma connesse, proprio come quelle stesse solitudini tristi che mettono un mi piace in Facebook. Alla fine si tratta solo di poter continuare ad esistere sulla scena del mondo.
Questi esempi vogliono solo essere un invito a riflettere sulla normalità perduta. A non rimpiangerla semplicemente come l’alter ego di questo momento difficile, ma a considerarla anche come il luogo di origine di molte fragilità che oggi si manifestano in modo a volte molto doloroso.
D’altra parte, questo periodo così strano e inatteso ha lasciato e continua a lasciar emergere anche potenzialità assai positive del nostro vivere e convivere. Anche queste risorse hanno radici nella cosiddetta normalità.
Qualcuno ha saputo resistere all’insofferenza verso le privazioni di alcune libertà, ad esempio, proprio perché più capace di entrare in contatto con la propria libertà interiore. Ci sono persone che il sapore della libertà hanno saputo percepirlo dentro di sé, più che nei permessi che vengono garantiti dall’esterno. La vulnerabilità di ciascuno di noi, inoltre, ha saputo essere accolta anche come un dono inatteso che ha incoraggiato forme bellissime di solidarietà, nella consapevolezza di una comune appartenenza. Così come la capacità di vivere la solitudine e l’isolamento ha saputo essere, in molti casi, un’occasione per entrare in contatto con gli strati più profondi della propria umanità. Nuove aperture, insomma, qualcuno lo ha detto: «ci siamo reinventati».
Proprio sulla scia delle esperienze più o meno dolorose o più o meno creative vissute in questo tempo della sospensione, credo sia giunto il momento di andare oltre la narrazione della pandemia e capire che non può essere lei l’unico luogo da cui pensare ogni nostro pensiero.
È giunto il momento, a me pare, di guardare in faccia a quella vita normale che si è improvvisamente interrotta, di esaminarla e interrogarla anche nelle sue ombre.
Andare oltre questo brutto periodo significa avere il coraggio di riconoscere anche nelle nostre vite normali le disarmonie e le contraddizioni nei confronti di noi stessi, degli altri e dell’ambiente cui apparteniamo. Andare oltre la normalità perduta significa impegnarsi a rinnovarla e a nutrirla di nuovi valori e significati.
Anche la normalità non era innocua
/ 12.04.2021
di Lina Bertola
di Lina Bertola