Nell’era della comunicazione di massa, dove la tecnologia ha annullato le distanze fra interlocutori lontani, permangono zone stranamente silenziose, fra vicini che non riescono a intendersi. E succede proprio in situazioni d’emergenza, qual è la malattia quando, chi chiede una cura non entra in sintonia con chi la presta. Questione, insomma, di parole discordanti: quelle del paziente, che racconta il suo disagio, e quelle del medico, che spiega i suoi rimedi. Esprimono, infatti, due interpretazioni diverse della stessa realtà, vissuta sulla propria pelle, e quindi emotivamente, dal malato, e, invece osservata con distacco professionale, e quindi razionalmente, dal terapeuta. Secondo un recente sondaggio, la maggioranza degli americani affronta la visita medica con imbarazzo, soggezione e timore
Ma, ecco finalmente una buona notizia: l’avvicinamento dei partner, coinvolti nell’emergenza malattia, è possibile. Lo sta dimostrando l’esperienza, ormai ventennale, dei seminari, organizzati a Lugano, dalla Fondazione di ricerca psiconcologica e dall’Associazione di volontariato Triangolo, di cui sono stata diretta testimone: li ho seguiti quasi tutti e, per il mestiere che faccio, incuriosita in particolare dall’evoluzione del linguaggio. Si è, insomma, saputo fare di necessità virtù. Non si trattava, certo, di banalizzare i contenuti scientifici dei nuovi traguardi di una medicina tecnologicizzata, bensì di definirli usando termini che hanno corso nella parlata attuale, all’insegna della chiarezza e della comunicabilità. Abbattendo, per cominciare, la barriera del «medichese», quel gergo, paragonabile al vecchio latino, che apparteneva, fino a pochi decenni fa, allo status symbol, professionale e sociale del «signor dottore», depositario del sapere e dell’autorevolezza. D’altro canto, il paziente, cliccando Internet e sbirciando rubriche di divulgazione salutista, si è costruito una presunta competenza in materia, elaborando la propria diagnosi da contrapporre a quella medica. Ciò che, a prima vista, può passare per una conquista democratica, dando voce a tutti, in pratica ha comportato il rischio di malintesi e derive.
La caduta del potere assoluto del medico, quale esponente dell’ufficialità, ha favorito l’avanzata della variopinta categoria degli alternativi. Sotto etichette diverse, vanno proponendo, con successo, esercizi fisici e spirituali, diete, tisane, e via enumerando rimedi che promettono salute, giovinezza, serenità, a iosa. Ancora una volta, è questione di parole che seducono e attecchiscono trovando un terreno particolarmente ricettivo, in un periodo in cui i poteri costituiti, le ideologie tradizionali, le cosiddette caste sono sotto processo.
Si sta assistendo, esaminando appunto il linguaggio, a due filoni che si muovono in direzioni opposte. Frequentando i citati seminari ho avuto modo di constatare il bisogno e la capacità, da parte della medicina ufficiale, di mettersi in discussione, di riconoscere i propri limiti, di coltivare la virtù del dubbio. Il più delle volte, com’è successo anche quest’anno con il tema «Trattare il dolore o curare il malato?», si proponeva un interrogativo. A cui rispondere valutando i pro e i contro che, spesso, accompagnano una terapia o un farmaco. Per dirla con Giancarlo Dillena, che in questi incontri svolge la funzione di «avvocato del diavolo»: «La pastiglia magica non è ancora stata scoperta». In realtà, proprio nell’ambito del dolore ci si muove su un terreno scivoloso, aperto a interventi miracolistici, sfruttati da guaritori, manipolatori e sciamani vari.
In definitiva, è precisamente l’uso delle parole che stabilisce la linea di demarcazione fra scienza e parascienza, fra lealtà e inganno. Da un lato, seri ricercatori ammettono le lacune del loro lavoro e si arrendono all’inevitabilità delle sconfitte. E non nascondono, neppure, la difficoltà di spiegare fenomeni come l’effetto placebo: basato su un’illusione, che rimane tale. Dall’altro il trionfalismo compatto, mai sfiorato da titubanze e scetticismo, di quelli che vendono la loro merce contando su una diffusa creduloneria. Come, aveva osservato il filosofo Sini, in un precedente seminario, «vanno scomparendo i credenti, sostituiti però dai creduloni».