Anche il passaporto cambia significato

/ 11.09.2017
di Luciana Caglio

Spetta a un ticinese, dev’essere una donna, meglio un politico di mestiere: si scontrano le opinioni e i sentimenti intorno alle candidature per la successione di Didier Burkhalter in Consiglio federale. Ma, questa volta, su un prevedibile dibattito elettorale se n’è innescato un altro, invece inaspettato: quello del doppio passaporto, che ha spostato il baricentro della discussione. Infatti, con sorpresa, si è venuti a sapere che Ignazio Cassis, italiano di origine, si era naturalizzato nel 1976 ma, e qui sta il presunto guaio, ottenuta la cittadinanza elvetica, non aveva rinunciato alla precedente. Ciò che non gli doveva impedire di assumere cariche pubbliche importanti, medico cantonale, membro della delegazione federale per l’UE e del comitato direttivo di Swiss Label. Quando, però, si è messo in lizza per il seggio a Berna, Cassis ha preferito cautelarsi decidendo di restituire il passaporto italiano, che, forse, poteva essere d’impiccio, nelle eventuali trattative ministeriali con Roma. Meno prudente, anzi volutamente provocatoria, la reazione del candidato ginevrino, Pierre Maudet: cittadino elvetico, già consigliere di Stato, e in pari tempo cittadino francese, per nascita e con relativo passaporto. Una condizione che, come ha dichiarato, rappresenta addirittura il vantaggio di «vivere due realtà».

Attraverso questi due casi, concomitanti e diversi, torna alla ribalta dell’attualità un interrogativo, che ha una lunga storia, tutt’altro che conclusa. Anzi, proprio qui, ci si muove fra tentennamenti e contraddizioni, comunque verso una regolamentazione più liberale. Da ormai 25 anni, chi si fa svizzero è autorizzato a mantenere la nazionalità originaria. Ne ha approfittato un numero crescente di cittadini, di ogni ceto ed età. In prima fila, studenti, per via dei vantaggi concessi dall’UE, ma anche immigrati anziani per ritrovare le cosiddette radici. E, persino in ambienti insospettabili, tipo poliziotti, militari, guardie di frontiera, per tradizione depositari di spirito patriottico, il doppio passaporto è un’opzione relativamente diffusa. Come, del resto, in molti servizi pubblici, dall’insegnamento alla socialità. Da quest’anno, poi, la concessione si è estesa ai nostri diplomatici. Stiamo, dunque, assistendo all’avvento di una nuova categoria di cittadini , che, osando un neologismo, si potrebbero definire «bi-nazionali». Assimilati e, tuttavia, accettati fino a un certo punto. Tanto che, non di rado, evitano di farlo sapere, consapevoli di esporsi all’accusa di opportunismo, alle facili ironie e, non da ultimo, alle strumentalizzazioni politiche. Ci sono partiti che, su questo terreno, campano, sfruttando paure e pregiudizi, che accompagnano ogni epoca, in forme diverse: crisi economica, populismo, terrorismo, e via enumerando minacce che con la doppia nazionalità non hanno nulla a che vedere.

Certo, sono lontani i tempi, che ben ricordo, quando, in Ticino, si parlava di «svizzeri con la firma bagnata», alludendo al loro documento di fresca data, che ne faceva cittadini di seconda qualità, anche dal profilo morale. Il naturalizzato appariva doppiamente colpevole: di tradimento verso la prima patria, cui voltava le spalle, e di presunzione verso la seconda patria, cui s’illudeva di appartenere. Un clima di ambiguità che gravava sulle scelte di tanti immigrati. Devo citare, in proposito, l’esperienza di mio padre, che arrivava da Varese, lavorava in un quotidiano luganese, conosceva le lingue nazionali, prediligeva la Svizzera tedesca, ma non riuscì a compiere un passo che, allora, significava un’infedeltà. Così voleva lo Zeitgeist, che imponeva un amor patrio, strettamente delimitato dai confini nazionali, che non consentiva sbandamenti neppure culturali. Di tutto ciò il passaporto era un emblema, unico e consacrato. Oggi, meno male, non lo è più, declassato ormai a documento più pratico che simbolico.

Del resto, proprio i chiacchierati episodi Cassis e Maudet sono la conferma di un cambiamento, che va oltre la questione «doppio passaporto sì o no». Rispecchia, invece, una società dove, persino nostro malgrado, si sta imparando a convivere nelle diversità. E, dove, non da ultimo, due ex-stranieri possono aspirare alle massime cariche del Paese. Augurandoci che ne siano all’altezza.