Parte all’insegna di interventi, proprio di matrice politica, il nuovo anno scolastico, nelle nostre medie. Vi prende avvio l’insegnamento della civica, scorporata dalla storia, che realizza un obiettivo difeso, persino con accanimento, da benpensanti della destra. Convinti che, spiegando a questi adolescenti i meccanismi della democrazia parlamentare, si riuscirà a farne cittadini elettori schierati dalla parte giusta, la loro ovviamente. Ed è, del resto, l’obiettivo finale del progetto «La scuola che verrà», elaborato e voluto da pedagogisti e funzionari di sinistra che, a loro volta, sperano d’incidere sulle mentalità dei giovanissimi: rendendole, come usano dire, più aperte e inclusive. Ora, questa concomitanza fra proposte di segno ideologico contrario, entrambe discusse e discutibili, sfociate in referendum, conferma come e quanto la politica sia presente nelle aule ticinesi. Con effetti evidenti nell’opinione pubblica che, intorno al tema scuola si mobilita, dando vita a partiti del sì e del no, che si affrontano senza esclusione di colpi. E non è, come magari si potrebbe sospettare, una prerogativa locale, la nostra tipica litigiosità da fratelli coltelli.
In realtà, il rapporto scuola-politica non conosce confini. Attualmente, oltre Gottardo, in un ambiente ben più ampio, è al centro di un dibattito, più che mai polemico. A suscitarlo, la pubblicazione del manuale «Gesellschaften im Wandel» (Società che cambiano), destinato ai docenti, cui spetta il compito d’istruire ed educare giovani all’altezza dei tempi. Cioè, in grado di reagire correttamente a tante sollecitazioni, distinguendo fra positive e negative, infine fra il bene e il male. A questo punto, quando si tratta d’indicare, con esempi concreti, da che parte stare, il manuale rivela la sua identità politica: che fa capo all’esigenza, persino al piacere di andar contro. Non basta schierarsi con i sindacati, bensì con movimenti tipo «Occupy Wall Street» o «Attac». Anche sul fronte ecologista, ci si affianca agli estremisti. Tanto da ribadire che in Svizzera «Il bosco muore», denunciando l’indifferenza e l’inettitudine del «sistema» che, invece, le foreste le ha salvate. Del resto, tutte le attività sociali e umanitarie, qui, vengono attribuite ad associazioni come Amnesty, Greenpeace, Caritas e Ong varie, mentre lo Stato, attraverso i suoi organismi, appare latitante. È una visione della realtà elvetica tendenziosa ma legittima in democrazia. C’è, però, da chiedersi se possa diventare la guida per i docenti di storia nelle scuole pubbliche. Tutt’al più potrebbe figurare marginalmente, alla stregua di un fenomeno collaterale, da non sottovalutare. Infatti, l’episodio sta a dimostrare come fra insegnamento e indottrinamento la linea di demarcazione sia sottile. Non da oggi.
Proprio la scuola rappresenta un terreno di conquista per demagoghi e dittatori d’ogni tendenza. Vi trovano una materia prima, per sua natura malleabile, qual è la mente giovanile, pronta a captare le seduzioni dell’avventura fisica e ideologica. Di quest’ingenua disponibilità a credere ed entusiasmarsi, si sono serviti i regimi dittatoriali del secolo scorso, rossi, neri e bruni. «Libro e moschetto fascista perfetto», da un lato, «Istruirsi per servire la causa sovietica», dall’altro. Mentre, nelle elementari palestinesi i bambini imparavano i calcoli sommando gli israeliani da abbattere.
Da queste forme grossolane di propaganda, tramite la scuola, si doveva passare, per nostra fortuna, agli slogan del 68, ispirati a prospettive vaghe del genere «La fantasia al potere». Comunque, hanno lasciato un’impronta su generazioni di docenti , che coltivano l’illusione di un insegnamento della storia improntato all’oggettività, di cui si ritengono i depositari.
Mission impossible, per dirla con quel bel film d’avventura. Una scuola, come una cultura o una stampa, perfettamente imparziale, rimane una meta lontana.