Un candidato democratico «normale» potrebbe agevolmente riconquistare la Casa Bianca. Il problema è che il partito democratico non ha un candidato «normale».
Alla fine – ci scommetto – l’uomo che sfiderà Donald Trump il prossimo 3 novembre sarà Joe Biden. Il motivo è semplice. Bernie Sanders ed Elizabeth Warren sono troppo a sinistra per convincere l’elettore medio americano; a maggior ragione per riconquistare il voto operaio e bianco dei tre Stati postindustriali – Michigan, Pennsylvania, Wisconsin – che nel 2016 sono stati sorprendentemente conquistati da Trump. Neppure Pete Buttigieg, il trentottenne ex sindaco di South Bend (Indiana), che può essere considerato la vera rivelazione di queste primarie, sembra l’uomo giusto per la missione; e non solo perché sarebbe il primo gay dichiarato a diventare presidente degli Stati Uniti, con tanto di «first husband» al seguito.
Però Biden – che nei sondaggi al momento batterebbe Trump – non è considerato un candidato forte. Il suo momento sarebbe stato il voto del 2016, quando invece i democratici schierarono Hillary Clinton. Oggi Biden appare troppo vecchio – ha settantasette anni, quattro più di Trump; se dovesse fare due mandati, concluderebbe alla veneranda età di ottantacinque anni – e anche troppo indebolito dallo scandalo ucraino. La richiesta di impeachment per Trump – accusato di aver fatto pressioni sul presidente ucraino, anche sospendendo la vendita di armi, per indurlo a riaprire l’inchiesta sul figlio di Biden – ha finito per ritorcersi contro il vicepresidente di Obama, più che contro l’inquilino della Casa Bianca.
Poi c’è l’incognita Michael Bloomberg. L’ex sindaco di New York ha evitato i dibattiti con gli altri candidati. Punta sul proprio denaro, sugli spot, e sul SuperTuesday, il SuperMartedì in cui votano molti tra gli Stati più importanti. Alle primarie in Iowa – favorito Biden – e in New Hampshire – favorito Sanders – neppure si presenterà. Secondo i sondaggi, Bloomberg è il candidato che batterebbe più nettamente Trump. Ma in una fase in cui la politica americana è molto polarizzata, e in entrambi i campi sembrano contare molto le spinte radicali, un miliardario newyorkese non appare il più attrezzato per conquistare il cuore dei militanti democratici e per mobilitare la coalizione delle minoranze – neri, ispanici, asiatici – che fu decisiva per l’affermazione di Obama, e senza la quale un candidato del partito dell’Asinello non ha alcuna chance di vincere.
Resta da capire quale potrebbe essere il destino di Trump. Di solito è molto difficile battere un presidente in carica; tanto più quando l’economia e la Borsa vanno bene. Eppure Trump desta sempre qualche riserva. Non si può neanche dire che al suo posto abbiano governato i suoi consiglieri; visto che li ha cacciati tutti, e continua a nominare persone di cui si stufa o si stuferà presto.
Ho seguito uno dei suoi comizi in Florida, per le elezioni di mid-term del novembre 2018. Mi ha colpito il modo in cui la folla si immedesimava in lui.
Dovete sapere che uno dei passatempi di Donald Trump è sedurre le donne degli amici. Un giorno, in viaggio sull’aereo privato con un miliardario e una modella, propose di scendere ad Atlantic City per visitare uno dei suoi casinò. Seccato, l’amico rispose che ad Atlantic City non c’era niente da vedere: solo «white trash», spazzatura bianca. «Cosa vuol dire white trash?» chiese la modella. «Sono quelli come me – rispose Trump –. Solo che loro sono poveri».
Il rapporto tra il presidente e i militanti repubblicani è molto diverso da quello che legava Obama ai sostenitori. Obama era più apprezzato che amato. La gente ammirava lui, la sua storia personale, la sua cultura; ma non era sfiorata dall’idea di essere come lui, di essere lui. Con Trump l’identificazione è totale. Perché Trump non è percepito come un miliardario, ma come un povero con i soldi. Pensa, sente, parla come il suo popolo. Che lo adora. Ma resta il fatto che almeno metà dell’America, forse più, lo detesta. Il problema è che questa metà oggi non ha un candidato universalmente riconosciuto.