La data dell’11 settembre 2001 rimarrà negli annali degli storici per aver marcato un punto di non ritorno nello sviluppo della globalizzazione e delle sue conseguenze. Di colpo ci si è dovuti rendere conto che certi confini ritenuti invalicabili nella pratica potevano essere violati, e con essi i simboli fondamentali di un disagio epocale tanto più incomprensibile quanto più diffuso ed occultato in meandri sociali e culturali di difficile lettura. L’aereo jet scagliato contro i simboli del commercio mondiale nel cuore della Prima Metropoli della modernità pone pesanti interrogativi che inglobano l’orrore nel quadro più ampio di un «chi siamo e dove vogliamo andare» paradossalmente tanto più incerto quanto più i mezzi del «yes, we can» crescono di potenza ed efficacia. Vale forse la pena nel clima sobrio di memoria e ripensamento della giornata odierna ripensare ad altri 11 settembre che ci aiutino a proiettare l’ultimo, corrente evento in quella prospettiva storica dove il «chi siamo e dove vogliamo andare» di cui sopra appare come la costante di una Storia che sembra come forzata compulsivamente a ripetersi.
Siamo nel 1581. I 130 spagnoli – compresi donne e bambini – chiusi dentro le precarie difese di Santiago de Chile, fondato da una quarantina d’anni, considerano le loro prospettive di sopravvivenza non senza una certa preoccupazione. Il conflitto con le varie tribù Mapuche poco inclini ad essere invase sembra non aver fine. Tredici spagnoli sono stati trucidati a Concon, dove una nave è anche stata data alle fiamme. Altri sei sono stati catturati e giustiziati, la miniera di Marga Marga distrutta… Fino ad ora la forza dei Conquistadores è stata la debolezza dei Mapuche: divisi al loro interno da secoli di conflitti e vendette non sono in grado di opporsi con efficacia agli archibugi degli spagnoli. È una guerra di nervi e di spie: ad un certo punto giungono notizie che i cacique Mapuche sono giunti ad un accordo per mettere da parte le loro divergenze, attaccare gli spagnoli ed espellerli dalle loro terre una volta per sempre: poi si vedrà. Pedro de Valdivia, comandante della piazza cilena, ritiene che si debbano disperdere i Mapuche prima che abbiano il tempo di organizzare l’assalto a Santiago. Al comando di un centinaio di uomini a cavallo si lancia al galoppo verso la valle di Cachapoal con l’intenzione di prendere i Mapuche, colà ammassati, di sorpresa.
A Santiago rimangono trenta uomini a cavallo, diciotto archibugieri e circa trecento indiani Yanakuna – nemici giurati dei Mapuche – sotto il comando del Tenente Generale Alonso di Monroy. Fra gli Yanakuna, tuttavia, si annidavano spie in contatto con i Mapuche. Al comando del cacique Michimalonco si decide di giocare di contropiede. Alle quattro antelucane dell’11 settembre fra gli otto e i diecimila guerrieri Mapuche escono dalla foresta e circondano la città. Una delle guardie – Santiago de Azoca – lancia l’allarme. Comincia allora una battaglia a suon di archibugiate, frecce, sassi, insulti e quant’altro dall’una e dall’altra parte si possa mettere in campo. Pian piano, uno dopo l’altro, gli spagnoli e i loro alleati sono feriti per quanto in maniera non grave. L’ero-crocerossina del momento è Inès de Suarez, amante di Valdivia: cura e fascia le ferite dei soldati e li rispedisce al fronte. Spazientiti dalla caparbia resistenza degli spagnoli, i Mapuche danno fuoco ai fienili che circondano la città e costringono gli spagnoli alla ritirata verso la Plaza dove opporre un’ultima, disperata resistenza. Si combatte da dieci ore. Pugni, calci e sputi: se solo due uomini sono in effetti caduti fra le fila degli invasori, tutti gli altri sono esausti e feriti in modo più o meno grave.
Occorre un’escamotage risolutore: che si fa!? Dismessa l’uniforme di crocerossina, Inès marcia risoluta verso un casa dove sono tenuti prigionieri sette caciques. Il piano? Tagliare la testa ai capi Mapuche e lanciarle nel campo avversario per creare panico, terrore e confusione. Molti si oppongono: usare i capi nemici come pegno è meglio che ucciderli – «e poi come facciamo a decapitarli?!» – chiedono Francisco Rubio e Hernando de la Torre – i carcerieri dei caciques. Testimoni oculari: Inès: «Si fa così» – prende una spada e in un colpo spicca la testa di Quilicanta, uno dei capi – e via via tutti gli altri. Poi ella stessa scaglia le teste fra le fila nemiche. Panico, costernazione, avvilimento. All’Altropologo piace pensare che qualcuno fra i Mapuche abbia pensato: «Questi sono veramente barbari, bestie. Impossibile sconfiggerli. Andiamocene». I Mapuche si ritirano e Santiago è salva: dal suo incendio si salvano, nel resoconto di Alonso de Monroy: «…i preziosi cavalli, due maiali piccoli, un lattonzolo, un gallo e una gallina e due manciate di semi di grano».
Fast forward: è l’alba dell’11 settembre 1973. Il presidenziale Palacio de la Moneda di Santiago de Chile viene bombardato dai golpistas del Generale Augusto Pinochet. Nella resistenza che segue viene ucciso il Presidente Salvador Allende. La democrazia batte in ritirata cosicché – a detta di autorevoli sostenitori del liberismo radicale da allora senza più oppositori efficaci – Santiago (e l’Occidente) siano salvi. Fino a quando?