Il primo giorno di novembre 1995, nel corso della 42esima seduta plenaria delle Nazioni Unite, veniva votata la mozione 60/7 che dichiarava il 27 gennaio International Holocaust Memorial Day. Alla commemorazione delle persecuzioni nazifasciste contro gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali e quant’altri vanno oggi ad aggiungersi altre commemorazioni di analoghe operazioni di quella che è entrata nella storia politica della modernità tarda come «pulizia etnica». Il britannico Holocaust Memorial Day Trust sottolinea i casi della Cambogia, del Ruanda, della Bosnia e del Darfur fra quelli che accompagnano la memoria recente. Altri casi – troppi per una storia del nostro divenire «moderni» che ancora si vorrebbe marcata dalla marcia trionfale del progresso – sono ormai (quasi?) solo testimoniati dai libri di storia, e fra questi forse dai meno letti.
Era il pomeriggio del 29 gennaio 1863. Nella città di Franklin, nell’attuale Idaho, alcuni giovani della tribù degli Shoshoni stavano caricando sacchi di grano acquistati dai coloni bianchi sui loro cavalli. Erano tempi critici per gli indiani: l’inverno era particolarmente rigido, la selvaggina scarsa per la presenza sempre più massiccia di agricoltori immigrati affamati di terre da arare a discapito di boschi e foreste. Nei villaggi Shoshoni si moriva di malattie polmonari e di stenti dovuti alla fame. Secondo la testimonianza di William Hull, che stava aiutando a caricare il grano, ad un certo punto venne avvistata una colonna di soldati di fanteria in marcia verso la città. Si trattava dei 40 uomini della Compagnia K del Terzo Reggimento dei Volontari della California al comando del Capitano Samuel Hoyt. Al seguito 15 carri di vettovaglie e munizioni e due cannoni da campagna – i famigerati Howitzer, per un totale di 80 uomini. «Hey, guardate! Arrivano i toquashes (nome che i Shoshoni davano ai soldati bianchi). Può essere che vengano ad ammazzarvi tutti!». Alle parole di Hull ribattè uno dei Shoshoni: «Può essere che anche i toquashes vengano ammazzati!». Poi saltò sul suo cavallo senza aspettare di completare il carico e, seguito dai suoi compagni, sparì al galoppo all’orizzonte.
I fanti erano solo l’avanguardia della spedizione punitiva contro gli Shoshoni guidata dal Colonnello Patrick Connor che seguiva a distanza la fanteria con 220 soldati a cavallo armati fino ai denti. Quando la notizia dei preparativi della spedizione era diventata pubblica, un editoriale del «Deseret News» aveva scritto: «Con un pizzico di fortuna i Volontari della California spazzeranno via gli Shoshoni. Noi vogliamo che la nostra comunità sia liberata da questa gente. Se la spedizione del Colonnello Connor avrà successo contro quella classe bastarda di esseri che giocano con le vite di cittadini onesti e rispettosi della legge noi non potremo far altro che essergli grati». I «cittadini» cari al «Deseret News» erano gli stessi che, a partire grossomodo dal 1847, in piena «conquista del West» avevano progressivamente espropriato i nativi delle loro terre e devastato i terreni di caccia dai quali gli Shoshoni dipendevano.
I tentativi degli Agenti Indiani di persuaderli a diventare agricoltori erano falliti. Per di più le prime avvisaglie di carestia fra i nativi avevano incontrato l’indifferenza delle autorità nonostante gli appelli lanciati dagli Agenti stessi. Fatto sta che le relazioni fra gli Shoshoni e i coloni – anche se molti di questi erano pacifici Mormoni – si erano progressivamente deteriorate. Spalle al muro per la mancanza di cibo, gli Shoshoni avevano prima venduto tutto il possibile, poi si erano dati al furto: di incidente in incidente e di vendetta in vendetta si era arrivati ad esecuzioni sommarie dei ladri e poi alle razzie da parte degli indiani. L’escalation era stata inevitabile e, quando nel dicembre 1862 otto minatori furono attaccati mentre si recavano in Montana lasciando uno di loro sul terreno, le autorità militari decisero che fosse ora di farla finita.
In quel fatale 29 gennaio, Cacciatore di Orsi – il capo degli Shoshoni – aveva disposto i suoi guerrieri in posizione difensiva. Sperava però ancora in una soluzione pacifica della questione, in quanto negoziati ad alto livello condotti dal Capo Sanpitch erano in corso a Salt Lake City. Poco dopo le sei del mattino, un primo attacco frontale nella neve in temperature polari non ebbe esito: i soldati furono respinti dal fuoco dei fucili antiquati e dalle frecce degli Shoshoni. Quando però il loro campo fu attaccato aggirandolo ai lati, il fronte si ruppe ed il combattimento fu condotto all’arma bianca. Inferociti dalla resistenza shoshone, i toquashes – così i rapporti ufficiali – «persero la testa»: donne, vecchi e bambini furono massacrati senza distinzione. Solo una manciata di indiani riuscì a fuggire. I soldati soffrirono 14 perdite e quarantanove feriti, nove dei quali morirono in seguito. Hans Jasperson, un colono danese, scrisse nelle sue memorie del 1911 di aver contato 493 morti fra le rovine fumanti del campo Shoshone. Quegli eventi sono ricordati come «Il Massacro del Fiume dell’Orso».