Il problema è noto: lo abbiamo già evocato anche in questa rubrica. All’uscita della pandemia del Coronavirus ci attenderà, con grande probabilità, una nuova stretta fiscale. Per poter far fronte all’enorme aumento del debito pubblico degli ultimi mesi, i governi dovranno poter disporre di molti più mezzi di quanti non ne abbiamo attualmente. Semplicemente perché il problema del finanziamento è così imponente che per risolverlo non sarà sufficiente operare con tagli della spesa e piani di risparmio. E per fortuna i tassi di interesse continuano a stagnare attorno allo zero per cento. Comunque l’impresa di trovare nuove entrate fiscali non sarà certamente da poco.
Da quasi 50 anni, ormai, gli sforzi dei governi dei paesi avanzati sono stati infatti fatti nella direzione contraria, ossia quella di ridurre il carico fiscale sulle spalle dei contribuenti, delle persone fisiche come delle persone morali (le aziende insomma). L’aumento delle imposte non è quindi una rivendicazione con la quale oggi si possano conquistare voti. È quindi evidente che i responsabili delle finanze pubbliche dei diversi paesi saluteranno in modo positivo, se non addirittura con entusiasmo, non importa da che parte venga, ogni proposta che consenta loro di ottenere un aumento delle entrate senza troppo agitare gli animi. La classica misura, in casi come questi, è di fare appello alla solidarietà dei ricchi. Che paghino più imposte sui loro redditi e sulle loro sostanze. Aumentare la tassazione dei ricchi è quanto ha promesso di fare il nuovo presidente degli Stati Uniti. Per lui, chi guadagna più di un milione di dollari all’anno di redditi dal capitale dovrebbe pagare un’imposta federale pari al 43,4% degli stessi.
Non sarà facile per Biden introdurre questa riforma nel Congresso, ragione per cui assume una certa importanza anche la proposta della segretaria del tesoro americana, Janet Yellen che intende far applicare, a livello mondiale, una tassazione minima per le aziende, in modo da evitare la trasmigrazione delle multinazionali nei paradisi fiscali. L’idea non è nuova. L’OCSE sta negoziando misure di questo tipo da diverso tempo tra 140 paesi e spera di raggiungere un accordo ancora quest’anno. Fra la proposta Yellen e la proposta OCSE vi è comunque una grossa differenza nel tasso di imposizione. L’OCSE domanderebbe il 12,5% dei profitti e dividendi, Yellen intende chiedere un tasso superiore al 20%.
I prossimi mesi chiariranno in che direzione potrebbe evolvere questo dibattito sulla tassazione minima delle multinazionali. Nella discussione in corso si inserisce anche una terza proposta portata avanti, questa volta, da due economisti di sinistra francesi, Gabriel Zucman e Emanuel Saez. Se ne parliamo qui è a causa della sua originalità. I due economisti francesi vorrebbero imporre non più il risultato finanziario delle aziende, ma il loro valore di capitalizzazione in borsa, con un tasso annuale dello 0,2%. Supponiamo che una banca abbia un valore capitalizzato di 972 miliardi di dollari. Questa banca dovrebbe dunque pagare annualmente un’imposta pari a praticamente 2 miliardi di dollari. Non chiedetemi il nome di questa banca ma sappiate che i 2 miliardi di nuove imposte sarebbero più o meno uguali a un terzo, se non addirittura alla metà, del suo profitto annuale. Una bella somma sia per chi dovrebbe riceverla – ossia il fisco – sia per chi dovrebbe pagarla, ovverossia le multinazionali.
Il vantaggio di una misura come questa sta nella facilità della percezione. I valori di capitalizzazione sono noti. L’imposta sarebbe percepita direttamente dalle autorità della borsa e riversata ai governi di pertinenza. Non è la prima volta, in questi ultimi anni – che nuovi progetti di imposizione fiscale a livello internazionale vengono promossi per cercare di evitare l’evasione fiscale delle multinazionali. Finora però, in termini di applicazione pratica nessuno è ancora riuscito a cavare un ragno dal buco.
Alla ricerca di nuove fonti fiscali
/ 03.05.2021
di Angelo Rossi
di Angelo Rossi