Aiutare utilmente: padre Angelo ci è riuscito

/ 13.01.2020
di Luciana Caglio

L’appello ad aiutare, sempre attuale di fronte a inevitabili catastrofi naturali e conflitti, assume toni più insistenti nel periodo delle feste. Quando l’euforia degli acquisti, spesso superflui, mette in evidenza le disuguaglianze fra chi ha troppo e chi non abbastanza. Che permangono persino alle nostre privilegiate latitudini, dove la povertà può sembrare un’anomalia, una sorta di emarginazione volontaria. Mentre in quelle dei Paesi in via di sviluppo, in particolare africani, continua a essere una normalità, persino disarmante. Tanto da scoraggiare la nostra disponibilità all’aiuto. Un certo scetticismo nei confronti di un possibile riscatto dalla povertà, dovuto non da ultimo alla corruzione dei politici locali, rischia di prevalere sull’esigenza di contribuire a migliorare condizioni di vita: che sono migliorabili. Ma bisogna crederci, osare e, soprattutto, dare un senso all’aiuto. E c’è chi ci riesce.

È stato il caso di padre Angelo Fantacci, appena scomparso a 95 anni, vissuti per oltre mezzo secolo, in Kenya, da missionario, per così dire insolito. La sua esperienza rappresenta una svolta decisiva nel concetto stesso di missione, sinonimo di conversione religiosa, associata al passato coloniale, e che per lui, assunse ben altri connotati. Si è tradotta in opere concrete e indispensabili, avviate, agli inizi, sugli altipiani, fra i nomadi Kukuju, in parte cristiani e in parte animisti, alle prese con bisogni primari. Si trattava di scavare pozzi per l’acqua, coltivare terreni ostici, assicurare un tetto, garantire un minimo di cure sanitarie e istruzione scolastica. «I nostri miracoli, ripeteva, sono gli interventi sociali, i dispensari per le donne, le scuole aperte a tutti: questo è lo spirito missionario di oggi». Da praticare adeguandosi ai luoghi in cui si trovò via via a operare. 

Quando la Consolata di Torino decise di trasferirlo sulla costa, a sud di Mombasa, padre Angelo si rese conto che il cambiamento comportava nuovi compiti e priorità. La regione, con una popolazione in maggioranza islamica, stava diventando una meta turistica di successo, frequentata da molti italiani e anche da ticinesi, che si godevano vacanze invernali in alberghi ben attrezzati, persino lussuosi, affacciati su spiagge incontaminate. Mentre, fra i palmizi del retroterra, sorgevano ville residenziali. Poco distante, a Likoni, periferia di Mombasa, padre Angelo aveva creato la sua parrocchia: singolare, come ho avuto modo di scoprire, in occasione della mia prima vacanza in Kenya, nel gennaio dell’85. Incuriosita dall’insegna «Catholic Church», sopra una cancellata che racchiudeva capannoni di tipo industriale, osai entrare, subito accolta dal padrone di casa. Cioè un sacerdote in tenuta da lavoro che stava creando una primizia: un centro socio-educativo, sanitario, un luogo d’incontro diverso dalla bettola per soli maschi. Mi spiegava: «Bisogna puntare sui giovani, che devono imparare un mestiere. E sulle donne, che devono capire di non essere soltanto macchine per far figli». In proposito, anni dopo, quando i televisori entrarono anche nelle abitazioni, magari capanne, degli indigeni, padre Angelo ne registrò gli effetti «contraccettivi», auspicabili per contrastare le troppe nascite: «Se si guarda la tv, si ha meno tempo per altro».

Un umorismo spontaneo, che attribuiva alle sue radici («Sono laziale per origine e per fede sportiva») e la capacità di rifiutare pregiudizi e moralismi accompagnarono padre Angelo lungo un itinerario inimmaginabile sempre in fieri, fra cui una scuola d’informatica a Ukunda, dove cristiani e musulmani crescono insieme. Tutto ciò grazie anche al sostegno finanziario e morale ottenuto dai turisti, alleati in un’operazione missionaria di nuovo stile. Dalla semplice donazione doveva poi scaturire un intervento di volontariato che, sotto etichette diverse, ha coinvolto numerosi ticinesi, fra cui citerò quella che fa capo a Gibus Scatizza. Un ponte, costruito sulla simpatia e la solidarietà, unisce Kenya e Ticino. Ma la corrente dell’aiuto non è a senso unico. Può riservare sorprese. A Lugano, cinque anni fa, quando l’incontrai per l’ultima volta, padre Angelo riuscì a impartirci una lezione di ottimismo: «Vedo in giro malumori, pochi sorrisi. Come mai? Eppure i negozi sono pieni di merci: 250 tipi di formaggio. C’è da perdere la testa…». Dietro la battuta ironica, padre Angelo proponeva una materia di riflessione: la sua preziosa eredità.