La reazione popolare e pure quella dei governi alla crisi da coronavirus pare oscillare tra due diverse paure: la paura della morte e la paura della povertà. Quando prevale la prima, si chiude tutto. Quando prevale la seconda, si riapre tutto. Nei Paesi latini prevale la prima, in quelli anglossassoni la seconda. È uno dei momenti della storia in cui viene fuori non solo il carattere delle persone, ma anche quello dei popoli. I latini si sono confermati più emotivi, sia nelle reazioni, sia nelle decisioni. Non è detto sia un male. L’Italia, colpita per prima, ha scelto la via drastica della chiusura totale.
La Spagna l’ha seguita abbastanza rapidamente, compreso il blocco dei voli da e per l’Italia. Macron, dopo la clamorosa gaffe della Lagarde, ha fatto due discorsi tv bellissimi: ha detto ai francesi che conta su di loro, che la crisi deve «risvegliare il meglio che è in noi», che «ognuno porta in sé una parte di responsabilità per la salute dell’altro»; poi ha annunciato la chiusura delle scuole, senza avere il coraggio di sospendere le elezioni comunali, che si sono svolte domenica scorsa in un clima irreale di paura e tensione. Ora il ballottaggio è stato rinviato al 21 giugno; ma ormai l’errore è stato commesso. Il mondo anglosassone ha avuto una reazione del tutto diversa. «Business as usual», ha detto in sostanza Boris Johnson: si lavora come sempre. «I casi sono molti di più di quelli scoperti. Preparatevi a perdere i vostri cari».
Nessuna restrizione, però: chi ha febbre e tosse resti a casa; l’importante è non fermare l’economia. Una linea che è stata elogiata dai quotidiani vicini al governo, compreso il «Times», ed è stata paragonata allo stoicismo churchilliano; ma che può costare carissimo sia agli inglesi, sia al mitico National Health Service, che non si è ancora ripreso dai tagli thatcheriani (e blairiani). C’è da scommettere che nel giro di giorni la strategia sarà rivista: già domenica scorsa il governo inglese ha consigliato agli over 70 di restare in casa e da venerdì la scuole restano chiuse. Di sicuro far giocare a porte aperte Liverpool-Atletico Madrid di Champions League, con tremila tifosi madrileni sugli spalti, è stato un rischio pazzesco: la capitale spagnola è anche il principale focolaio del Paese; del resto il virus colpisce innanzitutto le regioni più ricche, dinamiche, aperte al mondo.
In Italia, la Lombardia; in Germania, il Nord Reno-Westfalia, il Land della Ruhr, che da solo sarebbe la quattordicesima economia del mondo. Anche Angela Merkel ha detto una frase spaventosa: il virus può contagiare il 60 per cento dei tedeschi. La sua strategia è meno cinica di quella di Johnson, ma in Germania il blocco è stato ritardato dal dogma federalista; ogni Land decide per sé. E la situazione dev’essere davvero grave, se la Cancelliera ha annunciato un piano di spesa senza precedenti e ha chiuso le frontiere agli amici francesi. Donald Trump invece ha seguito un altro dogma: il sistema privato e il denaro. Sulle prime il presidente ha scelto una linea negazionista: «Ne uccide molti di più l’influenza». Poi ha capito che stava correndo verso il disastro, e ha corretto la rotta promettendo 50 miliardi di dollari, milioni di test, e la mobilitazione delle multinazionali, da Walmart a Google.
Trump sa che la crisi da coronavirus può costargli la Casa Bianca, e non solo perché puntava sul buon andamento dell’economia e di Wall Street. La superpotenza con il Terzo Mondo in casa, con fasce poverissime di popolazione prive di assistenza medica, si scopre vulnerabile; la domanda di Stato, di governo, di sanità pubblica può favorire un candidato non esaltante come Joe Biden. Ma lo scenario cambia di giorno in giorno, e a volte i popoli smentiscono se stessi. Gli inglesi ad esempio sono stati meno understated di quanto il loro premier vagheggiasse: Londra si è svuotata, chi poteva ha raggiunto la dimora di campagna, qualcun altro si è chiuso in casa. L’Italia invece è parsa seguire il paradigma della propria storia. Una classe dirigente impreparata, con poche eccezioni tra cui il presidente della Repubblica, che ha saputo tranquillizzare e anche farsi sentire quando Christine Lagarde ha rifiutato interventi straordinari della Banca centrale europea. Per il resto l’oscillazione tra chiusure, riaperture, richiusure ha fatto perdere tempo prezioso.
Appare assurdo che non ci siano abbastanza mascherine, che l’arrivo del virus abbia colto il governo di sorpresa. Eppure, come nei momenti decisivi della storia, anche stavolta vengono fuori gli italiani solidali, lavoratori, coraggiosi. L’abnegazione di medici e infermieri è straordinaria. Le forze dell’ordine fanno la loro parte, mai difficile quanto ora. Categorie non amate come i politici e i giornalisti, che a dispetto dei luoghi comuni vivono una vita di relazione in mezzo alla gente,si scoprono particolarmente esposti. Le donazioni private crescono. Il patriottismo da balcone può non piacere; ma è anche questo il segno di un Paese che resiste. A Torino, a Milano e non solo si cominciano a vedere il tricolori alle finestre.
Resta la grande questione economica. Il timore è che torni la grande crisi inaugurata dal fallimento della Lehman Brothers.La percezione diffusa è che siamo appena all’inizio della crisi da coronavirus. Il 2008 ci ha insegnato che l’economia reale non è separata da quella finanziaria. Quando si ammalano le Borse, anche le aziende si sentono poco bene. Quante non riapriranno? Quanti lavoratori perderanno il posto?