Anche la televisione, compagna di vita più che mai indispensabile, si adegua alla situazione. Fabio Fazio, che il mestiere lo pratica con invidiabile competenza, è corso ai ripari. Da alcune settimane, Che tempo che fa, godibilissima serata domenicale che, su Rai 3, offriva attualità all’insegna del buon umore, ha cambiato connotati: meno spettacolo e più informazione, meno attori e più politici e pensatori vari. A farne le spese è stato proprio il finale: «Il tavolo», che riuniva una compagnia strampalata: un’Orietta Berti rinata, il mago Forest, Marisa Laurito, Antonio Albanese, Gigi Marzullo, Fabio Volo, e via enumerando vecchie e nuove star del divertimento che garantisce la risata. Punto culminante, l’intervento di Nino Frassica. Ora, per evidenti motivi di opportunità, questo momento di allegria collettiva è stato cancellato. Fazio ne ha salvato soltanto un frammento, affidato all’umorismo assurdo di Frassica. E così, la serata si conclude con giornalisti, politici, filosofi, ecc. impegnati a commentare immagini che arrivano da Kiev e da Odessa, e che parlano da sole.
Con ciò, nulla da eccepire, la serietà è d’obbligo anche sul video, dove però i programmi, e non solo quelli italiani, questione di sopravvivenza, sono costretti a ospitare immagini e voci di segno opposto. Si tratta delle interruzioni pubblicitarie, sempre più invadenti, che possono sembrare fuori luogo, irrealistiche. Invece svolgono, a loro volta, un ruolo utile: esprimono e sollecitano un bisogno reale, quello di tornare alla normalità, dopo le restrizioni, imposte prima dal covid e poi dalla guerra. Gli addetti ai lavori della pubblicità, lavoro che associa arte e affari, si stanno impegnando per soddisfare le esigenze, a volte latenti, di un pubblico che non è più esattamente quello di prima. Si è abituato a stare in casa e apprezza le consegne a domicilio: da qui i depliant e i cataloghi illustrati, che intasano le buche delle lettere. Sta convertendosi, magari suo malgrado, al virtuale: consulta telefonini, tablet e naturalmente canali televisivi pubblici e privati dove i messaggi pubblicitari occupano spazi esorbitanti e ripetitivi. Riservando, però, piacevoli sorprese. Alludo allo spot Denner del bambino che scavalca la sponda del lettino, apre il frigo, non vede il latte, e traballante si reca in negozio, dove ne trova a iosa, grazie all’aiuto di un intenerito commesso.
Divagazione sentimentale a parte, sta di fatto che la pubblicità sfrutta abilmente gli umori che sono nell’aria. Complice la primavera, in tempi lontani associata alle grandi pulizie domestiche, adesso si progettano weekend e vacanze, ci si rimette in forma in palestra o al tennis, si affolla la foce della Lugano cosiddetta marittima. Simbolo della bella stagione, l’acquisto vestimentario, ovviamente superfluo. Tutto ciò, in nome di un diritto irrinunciabile nei confronti del proprio benessere, con effetti su quello dell’economia. Certo, c’è la guerra ma, nei confronti dei profughi, abbiamo fatto la nostra parte. Un conto saldato, insomma. Tanto che capita di ascoltare osservazioni del tipo: «Non sono neppure tutti poveri: girano macchine di lusso targate Ucraina».
Si deve, tuttavia, fare i conti con un disagio particolare, che rischia d’intaccare la ritrovata normalità che procura piacere. Proprio l’acquisto, un vestito, un paio di scarpe, una borsa, cioè un gesto in sé banale ha conseguenze diverse, rispetto a quelle abituali. Non è più soltanto il cedimento a una tentazione, irragionevole per via degli armadi già pieni. Comporta un senso di colpa: stato d’animo che, come spiegano gli psicologi, è provocato da un’azione o da un’omissione. In altre parole, abbiamo offeso o danneggiato qualcuno o ci siamo astenuti dall’aiutarlo quando ne aveva bisogno. E, sia chiaro, la nostra attuale colpevolezza è soltanto un’omissione di cui l’acquisto è però il sintomo di un fenomeno, che Edgar Morin aveva presagito già negli anni 60: con l’avvento della società di massa e del consumismo, la libertà individuale è diventata egoismo.