Acheropita: non dipinto da mano umana

/ 24.09.2018
di Cesare Poppi

Il monaco, quello che fin dal giorno del nostro arrivo al monastero di Pantokrator al Monte Athos avevamo soprannominato Rasputin, si era ora avvicinato levando un ossuto indice accusatorio. «Voi Latinos – cominciò in un inglese men che oxoniense – Voi Latini Romani avete rovinato tutto con quel vostro Rinascimento. Se fino ad allora l’immagine di Dio e della sua Santissima Madre erano state dipinte in ginocchio e con la preghiera voi le avete trasformate in opere di moda pagate carissime ad artisti maledetti e miscredenti. Erano acheropite, non dipinte da mano umana ma ispirate direttamente da Dio. Uscivano dall’anima ed erano manifestazioni dello spirito e voi ne avete fatto fotografie di una realtà terrena corrotta e corruttrice. Ma verrà il giorno che la pagherete cara, mooolto cara!» reiterò prima di sparire al di là dell’iconostasi, dove lo sentimmo ancora per un po’ inveire questa volta in greco prima che il Catholicon – la chiesa del monastero – ripiombasse in un buio silenzio.

Il 24 settembre 787 si inaugurava il Secondo Concilio di Nicea (Iznik, a 130 km a sud di Istanbul, nell’odierna Turchia). Il risultato fu di capovolgere la legislazione iconoclasta che aveva per almeno un cinquantennio bandita la venerazione delle icone e di ogni altra immagine sacra in quanto pratica eretica. Aveva cominciato l’imperatore bizantino Leo III (717-741) con un Editto Imperiale. Suo figlio Costantino V (741-775) aveva poi indetto il Concilio Ecumenico che a Hieria aveva reso la soppressione delle immagini politica ufficiale della Chiesa. Alla base della furia iconoclasta vi erano due ordini di ragioni – una meno nobile e santa dell’altra. La prima era la preoccupazione dell’Imperatore nel vedere declinare la produzione di immagini imperiali a favore di una crescente produzione (e venerazione) delle immagini sacre. La seconda ragione – argomentavano i teologi iconoclasti – era che i cristiani erano regrediti nell’adorazione delle immagini sacre così come nei tempi antichi i pagani adoravano le immagini degli dei. Si trattava insomma di una forma di superstizione nel senso etimologico del termine: «ciò che sopravvive delle antiche pratiche».

Il Concilio si era adunato in prima battuta nella Chiesa dei Santi Apostoli a Costantinopoli nel 786. Un contingente di soldati fedeli a quella parte del clero che ancora sosteneva le politiche iconoclaste imperiali fece irruzione nella chiesa. Con il pretesto che fossero scoppiati tumulti ai confini dell’impero, i soldati furono allontanati dalla Capitale. Per precauzione contro le trame della fazione iconoclasta il Concilio fu spostato a Nicea, nella Chiesa di Santa Sofia. Contava 350 membri. Dopo una Prima Sessione nella quale l’abiura dell’iconoclastia da parte dei vescovi Basilio di Ancyra, Theodoro di Myra (la sede che era stata del grande San Nicola) e Teodosio di Amorium impetrarono di essere perdonati per le loro posizioni iconoclaste, il vero asso di briscola fu giocato nella Seconda Sessione – il 26 settembre – quando i delegati di Papa Adriano (il Vescovo di Roma era allora ancora considerato come un autorevole primus inter pares) presero posizione a favore della reintroduzione del culto delle icone che peraltro non era mai stato in discussione in Occidente.

La strada era ormai aperta e la partita vinta, ed infatti la Quinta Sessione (4 ottobre) puntò l’indice – un’indice stavolta teologicamente corazzato dal placet Romano – contro coloro che saranno destinati a diventare i soliti noti colpevoli: l’ostilità al culto delle immagini era stata in primo luogo dovuta all’influenza nefasta di Ebrei, Manichei e «Saraceni». Così legislando (ma la storia è sempre ironica e paradossale) il Concilio implicitamente ammetteva che l’Islam – contrario come tutte le religioni semitiche alla venerazione delle immagini (delle quali il cristianesimo altro a sua volta non fu, si può argomentare, che una «eresia» nel senso etimologico del termine «lascio la strada antica e mi incammino per un’altra alternativa») – avesse fatto breccia nell’apparato simbolico e cognitivo della cristianità così come premeva, con frequenti, drammatici cambiamenti di fronte alle frontiere orientali dell’Impero. Sta di fatto che le decisioni in favore dell’iconoclastia del Concilio di Hieria furono condannate e dichiarate nulle nel corso della Sesta Sessione, mentre la Settima ed ultima sessione si concluse con una dichiarazione di fede nel culto delle immagini. Questo fu reintrodotto con una sottile, strategica (anche se opportunistica, se si vuole) distinzione fra l’adorazione («latrìa») che si deve solo alla Divinità ed alle sue espressioni trinitarie e la venerazione («dulìa») che si deve alla Vergine (oggetto di «iperdulìa» nell’accezione romano-cattolica) ai Santi ed alle rispettive icone.

Pace fatta per tutti, dunque? Affatto. Anche se si dovrà attendere la Riforma protestante per vedere gli iconoclasti di nuovo al lavoro a martellare statue di santi e bruciare sacre tele. O sparare le reliquie dei santi col cannone. Ma questa, altropologicamente parlando e pace il Rasputin di Pantokrator, è un’altra Storia.