Cara Silvia,
leggevo come d’abitudine la sua rubrica e mi ha colpito quanto scrive la signora Mirella: condivido appieno il suo stato e vorrei esserle di conforto, se così si può dire.
Mi chiamo Beatrice, ho 63 anni e da vent’anni, dopo che mio marito ha scelto la segretaria al mio posto, ho deciso di prendere mio padre in casa senza sapere che cosa mi attendesse. In quel periodo ero disoccupata e ci sono voluti parecchi anni prima di recuperare la «mia carriera» di insegnante. Avevo tre bimbe e, d’accordo con mio marito, mi ero dedicata alla famiglia, tanto più che, per esigenze di lavoro, avevamo viaggiato molto. Ma, al momento del divorzio sono diventata, davanti ai giudici, quella che non voleva lavorare!
Ora mio padre, che vive sempre con me, ha 94 anni e ha conquistato il mio cuore e quello delle mie figlie. Sta bene ma ho dovuto ridurre la mia attività a metà tempo per concedere alla badante le sue ore libere. Improvvisamente questa signora, rientrata dopo due mesi di vacanza dalla Bulgaria, è stata richiamata in patria per la morte del marito. Nel frattempo, trovandomi obbligata a lavorare a tempo pieno, mi sono affidata alle associazioni che procurano badanti specificando che era per un periodo limitato. Purtroppo mi sono sentita più che mai sola, attorniata da persone che volevano esclusivamente trarre profitto. Sono stati 15 giorni infernali! Ora la nostra cara aiutante è rientrata e sento un grande affetto per lei: una persona comprensiva, allegra, affettuosa, molto riconoscente. Da tempo ho avviato una conversazione col Cantone perché ritengo che le badanti, come gli anziani, meritino maggior attenzione. Altrimenti saremo tutti più soli. Peccato.
A scuola, anche se è l’ultimo anno, intendo portare un’educazione sociale all’interno della classe. Questo mondo mi pare così occupato nel correre e rincorrere divertimenti senza sostanza, effimeri. In conclusione ci tenevo a dirle, cara Mirella, che nel suo sacrificio non è sola. / Beatrice
Cara Beatrice,
mi scuso se, per motivi di spazio, non ho riportato per intero a la sua lettera ma si capisce, anche da questi pochi cenni, che la sua vita riflette quella di molte sue coetanee che, cresciute in famiglie tradizionali, hanno dovuto affrontare cambiamenti imprevisti: frequenti trasferimenti, il divorzio, la dequalificazione degli impegni familiari e domestici, la solitudine, la faticosa ripresa del lavoro, la cura dei genitori, l’insensibilità di una società sempre più frettolosa e distratta, incapace di emergere dal presente e di riconoscere i veri valori. Primo tra tutti la solidarietà. La stessa che lei prova nei confronti della badante, che non considera soltanto una dipendente stipendiata, ma un’amica, quasi una parente per l’affetto con cui accudisce suo padre e partecipa alla vita della vostra famiglia.
Lavorando nel sociale, anch’io ho avuto modo di constatare con rincrescimento quante volte le richieste di aiuto vengono monetizzate oppure trattate in modo burocratico, dimenticando che dietro a ogni pratica c’è una persona che soffre e che vuole essere ascoltata, non come un numero, ma nella sua specificità, nella particolarità della sua condizione.
Negli ultimi decenni, l’inserimento di tante donne straniere nelle nostre case, l’aiuto che ci offrono nell’accudire i soggetti più deboli – i bambini, gli anziani, i malati – avrebbe potuto dar luogo a una alleanza femminile, a una nuova sorellanza. Sarebbe stata un’occasione di arricchimento per tutti, la possibilità di superare la solitudine che tanto ci affligge. In realtà ciò è avvenuto solo in pochi casi quando, come lei testimonia, le vicende della vita, i dolori e le gioie, le cadute e le riprese, sono diventate sapienza, saggezza, donatività, amore. L’insensibilità deriva, a mio avviso, dall’incapacità di ammettere la propria debolezza, la propria fragilità, di riconoscere che ognuno ha bisogno degli altri.
Anche i bambini che procedono con levità, gli adolescenti inquieti, gli adulti super-impegnati possono all’improvviso diventare dipendenti e richiedere che qualcuno si prende cura di loro con sensibilità, con attenzione, con dedizione. E i sentimenti sono reciproci o non sono. L’educazione civica non è costituita soltanto da un intreccio di diritti e doveri ma anche da quel calore umano che nessuna legge può ordinare perché il verbo «amare» non conosce l’imperativo. Eppure è il più importante di tutto il vocabolario.
Credo che la sua lettera, così sincera, così vera e appassionata possa aiutare, non soltanto la signora Mirella, ma tutti noi, alle prese con un’esistenza sempre più strumentale, competitiva, stretta nella tenaglia dell’Io e del Mio, ad aprire gli occhi e a spalancare le braccia. Fuori ci attende un mondo di bellezze naturali, di arte, di cultura e di storia dove, nonostante tutto, l’umanità conserva e offre ancora il meglio di sé.