Abitare il cielo

/ 16.08.2021
di Lina Bertola

È in corso una bella gara, tra i miliardari Richard Branson, imprenditore inglese fondatore di Virgin Group, e Jeff Bezos, fondatore e proprietario di Amazon, per portare in giro i nuovi «viaggiatori stellari», oltre il confine dell’atmosfera terrestre. Al momento è in vantaggio Bezos che il 21 luglio, in occasione del primo volo della sua navetta, ha offerto ai suoi tre passeggeri l’ebbrezza di stare per quattro minuti ad ondeggiare in assenza di peso, a 100 km di altezza. Branson, dieci giorni prima, si era fermato a poco più di 80 km, un confine considerato già spazio, ma su cui non tutti concordano.

Il turismo spaziale offre un’esperienza straordinaria, e non certo solo perché riservata a pochi super facoltosi (un primo volo è stato pagato all’asta 28 milioni di dollari, ma Richard Branson ha garantito che da settembre il turismo spaziale sarà praticabile sborsandone «solo» 250mila). E pare che già moltissime persone si siano annunciate per i prossimi giri turistici nel cielo.

Questa esperienza spettacolare, che ci proietta in uno scenario inedito del vivere, ci pone però di fronte ad un quesito attualissimo: svolazzando senza gravità tra seggiolini supertecnologici da cui guardare il nostro mondo perso nell’universo non stiamo forse trasformando il senso stesso dell’umano? Quei momenti così straordinari potrebbero infatti confermare ciò che già da tempo percepiamo, e cioè una profonda trasformazione del nostro rapporto con la tecnologia che da oggetto nelle nostre mani rischia di diventare sempre più il soggetto protagonista di molte umane esperienze. Come dire: oggi noi possiamo essere quelli lì, quegli uomini che guardano dal di fuori ogni orizzonte umano, proprio perché la tecnica ci ha trasformati in… oggetti tecnologici.
L’assenza di gravità si offre allora come una specie di esperienza metafisica, un’istantanea trascendenza in salsa tecnologica. La questione del nostro delicato rapporto con la tecnologia è attualissima ma vado oltre, perché la presenza di questi nuovi viaggiatori stellari sollecita altre questioni.

Simili viaggi erano certamente impensabili prima che l’homo technologicus raggiungesse la sua attuale ultima frontiera, eppure da sempre l’uomo ha abitato il cielo, con il pensiero, con i sentimenti, con le emozioni dell’animo ma anche del corpo.

Leggendo di questo turismo spaziale mi è venuto subito in mente il grandioso racconto platonico del viaggio delle anime giunte al sommo della volta del cielo che «si spandono fuori» e si librano «sopra il dorso del cielo». Il pensiero di Platone ci offre qui un potente vissuto di trascendenza, un’esperienza di umana contemplazione, trasportandoci fuori dal cielo, in quello che appunto viene poeticamente definito il «sopra celeste sito».

Abitare il cielo, con il pensiero e con le emozioni, è da sempre un modo di sperimentare la vita, di percepirne l’intensità, anche nel corpo, trascendendone i limiti. Ce lo ricorda Immanuel Kant, nel suo celeberrimo «cielo stellato sopra di me», una presenza che nutre la coscienza della propria esistenza. E così il premio Nobel per la fisica del 1926 Jean Baptiste Perrin: «è una debole luce quella che ci arriva dal cielo stellato. Ma che cosa sarebbe il pensiero umano se non potessimo vedere le stelle?».

Quando finalmente le stelle riappaiono, quando finalmente respiro il fresco che mi lascia il colore del cielo, come ci suggerisce una bella poesia di Giuseppe Ungaretti, «mi riconosco immagine passeggera presa in un giro Immortale».

E chissà quanti di noi, nelle notti delle stelle cadenti, hanno rivissuto questa esperienza.
Perché non solo il pensiero ci rende da sempre abitanti del cielo. Anche l’emozione poetica di parole e immagini. Nella notte stellata di Van Gogh, ad esempio, il cielo diventa proiezione del nostro mondo interiore. Noi siamo anche queste emozioni; siamo esperienza di trascendenza pur restando sempre in contatto con il peso della gravità che ci accompagna sui sentieri della vita.

Questa esperienza di un cielo della vita nasce infatti proprio nel corpo e grazie al corpo che siamo. Abbiamo appena ammirato a Tokyo straordinari voli e volteggi, a corpo libero o appesi ad un’asta. Abbiamo ammirato la bellezza di tanti corpi a danzare leggeri, ad espandersi, a librarsi nel cielo, proprio come raccontava Platone.
Anche danzare è una bella esperienza di trascendenza, in punta di piedi, un andare oltre senza bisogno di andare da nessuna parte, perché il cielo dell’altrove è dentro di noi.

Sono tanti i modi di abitare il cielo, più intensamente e più umanamente forse, di quanto possa accadere dentro una navicella milionaria, affidandoci alle promesse della tecnologia.