Abbattere le statue e sentirsi migliori

/ 14.06.2021
di Paolo Di Stefano

Si è aperta a Bristol una questione interessante, visti i tempi che corrono. La statua del mercante di schiavi secentesco Edward Colston, abbattuta nel giugno 2020 durante una manifestazione di Black Lives Matter, dopo essere stata ripescata dal fiume in cui era finita, è ora esposta dalla scorsa settimana fino a settembre nel museo della città inglese, non ripulita degli sfregi rosso-sangue sul viso e dei graffiti lasciati dai manifestanti. In aggiunta, a beneficio dei visitatori, il museo ricostruisce la cronologia degli eventi vissuti dalla scultura bronzea, che fu realizzata da John Cassidy, artista ottocentesco irlandese certamente infatuato di Auguste Rodin e suo (mediocre) seguace.

Accanto al monumento trovano spazio i cartelli e gli striscioni esibiti dalla folla che protestava per le strade dopo la morte di George Floyd da cui un anno fa nacque il movimento antirazzista. Il pubblico della mostra di Bristol è invitato a esprimere il suo parere sul destino della statua: archiviarla in un magazzino? Conservarla in un museo? Ricollocarla in città? E dove, se non nella piazza da cui è stata divelta? Uno storico, dopo aver valutato l’esito del sondaggio, comunicherà una sua «raccomandazione» alle autorità cittadine. L’iniziativa è contestata da più parti, ma non manca di coraggio. «La statua viene esposta non per essere magnificata ma interrogata», scrive giustamente Michel Guerrin su «le Monde» (5+).

I contestatori più duri ricordano che Colston costruì la sua ricchezza sul monopolio del commercio di schiavi africani destinati ai lavori in loco ma anche alle piantagioni di zucchero e di tabacco degli Stati Uniti d’America. La statua eretta nel 1895 – come l’intitolazione a Colston di strade istituzioni edifici piazze – fu pensata in segno di riconoscenza per il filantropo che aveva finanziato scuole, chiese e ospedali, certo sorvolando sulle vittime che il suo florido commercio aveva prodotto: non ultimo il sacrificio di migliaia di africani finiti, durante il viaggio, nelle acque dell’Oceano Atlantico.

Dunque, c’è prima lo schiavista (1) e poi il benefattore (5), celebrato come «uno dei più saggi e virtuosi figli della città di Bristol», ma la media tra i due non arriva alla sufficienza (3). Bisogna però pur sempre considerare il tempo storico in cui certi eventi sono avvenuti e avvengono. I romantici dicevano che «quando il popolo si desta Dio si mette alla sua testa»: lo ricorda lo storico Adriano Prosperi (voto massimo con lode al suo recente Un tempo senza storia). E se è pur vero che eliminare i monumenti del passato è un gesto iconoclasta tipico delle rivoluzioni (la Rivoluzione francese come la caduta del Muro di Berlino), qui si tratta non tanto di moti rivoluzionari quanto di proteste dovute alla frustrazione e all’impotenza.

Per essere autentica rivoluzione dovrebbe osare di più. Per esempio, perché distruggere le effigie degli schiavisti del passato remoto e rimanere indifferenti nei confronti degli schiavisti di oggi? Quelli che, come faceva Colston tre o quattro secoli fa, gestiscono o comunque permettono il commercio di migranti (sempre dall’Africa) senza colpo ferire. Rovesciamo le statue di Cristoforo Colombo per ricordare che le popolazioni indigene subirono le violenze dei conquistatori, e ignoriamo o tolleriamo le violenze, i soprusi e gli sfruttamenti attuali.

In Noi schiavisti (5+) la giornalista Valentina Furlanetto, per spiegare come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa, elenca gli spaccapietre cinesi, le badanti ucraine, i rider africani, i bengalesi nei cantieri navali, gli allevatori sikh ma anche i braccianti macedoni, pakistani o senegalesi chiamati «scimmie» e schiacciati dai caporali. Si potrebbero aggiungere i lavoratori del riso nella Nigeria, rinchiusi in condizioni disumane durante la pandemia in uno stabilimento di Kano per produrre di più. E i minatori, spesso minorenni, nelle miniere del Congo che estraggono coltan e cobalto per i nostri smartphone e le nostre batterie. Siamo cittadini smart 4.0 soltanto per spendere e consumare o anche per pretendere giustizia e dignità?

Se la globalizzazione rende tutto felicemente più vicino, anche l’indignazione dovrebbe ignorare i confini. E comunque nel dubbio andate a Sabaudia, località turistica del Lazio, dove un medico di recente è stato arrestato per aver prescritto stupefacenti a oltre duecento pazienti di nazionalità indiana: gli oppioidi avrebbero permesso ai braccianti stranieri di lavorare nei campi dalle 12 alle 16 ore al giorno senza avvertire la fatica. Nulla da dire? Continuiamo pure a rinnovare i nomi delle strade e delle piazze, a rovesciare le statue di Colombo e di Colston… Ma la frustrazione di cui parla Prosperi non va sottovalutata: è pura illusione correggere il presente o progettare il futuro limitandosi a cambiare il passato o a cancellarlo.