Lo stupro di Palermo e la sua rappresentazione. Difficile trovare parole non banali per descrivere la brutalità del branco, il filmato girato durante la violenza, l’esibizionismo dei maschi, il male e la voglia di mostrare il male come un trofeo, i video fake e le chat dove si minimizza sull’accaduto, una realtà parallela dove regna l’indistinzione tra vero e falso, tra responsabilità e incoscienza.
Com’è noto, lo stupro di gruppo subito da una ragazza di 19 anni a Palermo lo scorso 7 luglio 2023 è stato filmato con il cellulare e diffuso in rete. Venti minuti di violenza racchiusi in un video! Nonostante l’intervento della Polizia Postale, su Telegram si sono moltiplicati i gruppi a tema. A orrore si aggiunge orrore e diventa sempre più labile il confine fra reale e virtuale, fra il mondo social e quello delle aule dei tribunali e delle celle degli istituti di pena. Intanto, sono comparsi sui social profili fake di alcuni dei sette giovani palermitani arrestati con l’accusa di violenza sessuale. In uno, quello del ragazzo minorenne all’epoca dei fatti, risultato falso, sono apparse frasi come «Il carcere è di passaggio si ritorna più forti di prima», o ancora «C’è qualche ragazza che vuole uscire con me». Il tutto accompagnato da commenti che alternano odio e curiosità morbosa. La facilità con cui in poco tempo abbiamo preso per veri i video di alcuni dei violentatori di Palermo, dove tra balletti, faccine, cuoricini si minimizzava l’accaduto, si respingevano le accuse, ci si proclamava capri espiatori e vittime dell’odio social con l’hashtag #nonhofattonulladimale, dovrebbe farci paura quasi quanto la violenza.
Come ha commentato Andrea Minuz su «Il Foglio» – «L’ingestibilità della bolla social ha raggiunto qui punti di non ritorno: se apriamo TikTok, fra i primi video spuntano nome e profilo della ragazza violentata, la cui identità dovrebbe com’è ovvio restare ignota. Se andiamo su Telegram tutto un ripugnante mercato nero per entrare in possesso del “video dello stupro” e gente disposta a pagare parecchi soldi per vederlo. Ma per quanto abietto, il video girato da uno degli aggressori risponde ancora a logiche arcaiche e animalesche: l’umiliazione della vittima, il trofeo della violenza, l’impulso sadico, il voyeurismo da snuff movie, con la coda della sua ignobile compravendita nel deep web. Cose agghiaccianti, ma che conosciamo bene. Finito nelle mani degli inquirenti, il video si trasforma poi in prova e arma di giustizia. Diventa utile per ricostruire la dinamica dei fatti, la catena delle colpe e per rafforzare la testimonianza della ragazza».
Il prof. Vittorino Andreoli, noto psichiatra, ha proposto una drastica soluzione sull’uso aberrante dei social: «Sono una disgrazia permessa dallo Stato, andrebbero cancellati». È una risposta sensata? Soprattutto, è possibile fermare la tecnologia? Ormai la rivoluzione digitale è entrata così prepotentemente nelle nostre vite da condizionarne i comportamenti, le idee, la società stessa in cui viviamo. Quando nacque la tv, molti pensavano ai disastri che avrebbe procurato, senza tener presente che era una comunicazione dall’alto verso il basso ed era in mano a persone responsabili. La diffusione dei social media, invece, attraverso una comunicazione di tipo orizzontale, alimenta un bisogno di visibilità: postare o condividere immagini e contenuti, anche personali e violenti, cercare consensi (like), cercare di esistere. Questi comportamenti costituiscono esempi di un «esibizionismo mediale» che spinge adulti e minori a atteggiamenti disinvolti, disinibiti, spesso incuranti degli effetti reali delle condotte online.
Come scrive Max Fischer in La macchina del caos «il giudizio tradizionale dei primi tempi – secondo cui i social media promuovevano il sensazionalismo e l’indignazione – seppur accurato si rivelò decisamente un eufemismo. Oggi esiste un corpus sempre più ampio di prove, raccolte da decine di studiosi, di giornalisti, di “talpe” e di cittadini preoccupati, che suggerisce che l’impatto dei social sia stato ben più profondo. Questa tecnologia esercita un’attrazione talmente forte sulla nostra psicologia e sulla nostra identità, ed è talmente pervasiva nelle nostre vite, da cambiare il nostro modo di pensare, di comportarci e di relazionarci con gli altri. L’effetto finale, moltiplicato su miliardi di utenti, è quello di cambiare la società stessa in cui viviamo».