Mentre scrivo, il Festival di Locarno è ancora in corso, ma la mente già mi dice che si sta avvicinando la fine. Fra qualche giorno la magia che rende la cittadina sul Verbano per una decina di giorni la capitale del film si dissolverà. Ma intanto si è ancora immersi in questo tempo sospeso, in cui ognuno vive la propria dimensione: migliaia di festival individuali che si connettono in una rete di eventi e incontri, raccolti in una cornice collettiva.
Locarno non appartiene solo ai critici cinematografici, ad attori registi produttori, ai giornalisti, a chiunque graviti attorno al mondo del cinema. Immergersi per dieci giorni nel Festival è un’esperienza che rende ognuno più che spettatore: si diventa attori di un film personale che si costruisce con tutte le immagini, gli incontri, gli scambi con amici e persone sconosciute, gli eventi, le riflessioni e le emozioni che ti sommergono irresistibilmente, per poi ributtarti dopo un lungo viaggio interiore sulle rive della quotidianità, che riprenderà possesso del tempo una volta smontato il telone e tolte le sedie in Piazza Grande. Lasciandoti l’impressione che qualcosa in te è cambiato.
Vivere il Festival è vivere in una bolla, certo, ma non avulsa dalla realtà. Anzi, ti porta con i suoi film non solo sogni ma anche i tanti volti del mondo, a volte insostenibili nella loro durezza, la storia presente e passata dell’umanità, in immagini così forti che ti fanno sentire parte di una dimensione collettiva e di un tempo dilatato. Non serve per forza la competenza del critico cinematografico, è sufficiente l’apertura d’animo per cogliere l’urgenza dei messaggi e delle visioni che i tanti film ti offrono, per rendere ancora più reale il reale. Cosa c’è di più reale di un film come The Hamlet Syndrome che racconta l’elaborazione dei traumi della prima guerra in Ucraina nel 2014 quando ti trovi sul palco gli attori in carne e ossa, fra cui un giovane non ancora trentenne alla sua seconda esperienza di soldato, giunto a Locarno dal fronte con una licenza speciale? Non posso fare a meno di pensare che Slavik, il quale mai avrebbe voluto ripetere l’esperienza di soldato (fu catturato e torturato otto anni or sono), domani potrebbe essere morto, di pensare che appartiene alla generazione di mia figlia, che forse siamo noi a vivere in una bolla irreale, mentre l’umanità non solo in Ucraina vive e continua a ripetere l’assurda esperienza della guerra, dell’odio fra esseri umani, di traumi che si perpetueranno per generazioni. Cosa c’è di più reale di Matter out of place, che in 110 minuti di inquadrature fisse ci dà un pugno allo stomaco mostrandoci una discarica abusiva in Svizzera nascosta per decenni sotto un idillico campo agricolo, una discarica a cielo aperto nelle montagne del nord dell’India, l’isola delle Maldive in cui tutti i rifiuti vengono ammassati e bruciati, le plastiche recuperate dal mare, per poi evolvere con un messaggio di speranza verso una realtà in cui (in Occidente) i rifiuti vengono raccolti e trattati fino a diventare sabbia fine e concludersi con le scene del festival nel deserto del Nevada Burning Man, in cui alla fine si raccoglie anche l’ultimo filo interdentale?
Altre volte il reale si trasforma in surreale, come nel film Skazka di Alexander Sokurov, in cui Hitler, Stalin, Mussolini, Churchill (ognuno moltiplicato per tre), si ritrovano nell’aldilà e dialogano fra loro, in lenti e spettrali movimenti, in una cornice in bianco e nero che riporta all’inferno dantesco, con le masse di anime dannate che li seguirono o furono semplicemente vittime delle follie del secolo scorso. Come in Lola, la storia di due sorelle inglesi che inventano una macchina per prevedere il futuro ma alla fine lo influenzano e lo cambiano (siamo nella seconda guerra mondiale e come risultato l’Inghilterra viene invasa dai nazisti, mostrandoci che cosa sarebbe stato se Hitler avesse vinto). O come nel malaysiano-indonesiano Stone Turtle, in cui una storia dai risvolti truci si crea, scompone e ricompone come in un sogno – per poi irrompere nella mia realtà personale quando poche ore dopo incontro e scambio due parole con la protagonista e potente attrice indonesiana Asmara Abigail.
Per questa realtà, che la supera e la amplifica, vanno i ringraziamenti personali a tutti coloro che rendono possibile questo Festival. Arrivederci all’anno prossimo!