L’Università Roma Tre introdurrà a decorrere dall’anno venturo un corso di storia destinato agli studenti delle facoltà scientifiche (ingegneria, matematica, fisica, biologia, chimica e discipline affini). La decisione è stata presa sull’onda della mobilitazione a difesa della storia, un insegnamento che negli ultimi anni – non solo in Italia – è stato sospinto ai margini, quale fosse una materia facoltativa. Agli occhi del rettore che ha varato il provvedimento – il francesista Luca Pietromarchi – l’ignoranza del passato ha ormai raggiunto livelli allarmanti, i ragazzi vivono in un «eterno presente» e non «riescono più a capire di chi sono figli, nipoti, quali sono i fatti e le ragioni che hanno portato al loro mondo, quello, appunto, in cui sono immersi». Le conseguenze sono anche d’ordine politico: «si sentono individui, non più membri di una grande comunità».
Gli indirizzi umanistici non hanno mai avuto vita facile, ma negli ultimi tempi la pressione si è trasformata in assedio. Prof, ma a che serve tutto questo? Che ce ne facciamo di un sonetto del Petrarca, delle crociate medievali, dello stoicismo greco? L’argomento dell’utile/inutile risuona nelle aule ad ogni inizio d’anno scolastico. Si potrebbe rispondere con una batteria di altre domande: come sareste, cari allievi, se improvvisamente le scienze umane scomparissero dal vostro universo mentale? Quale mondo verrebbe fuori? E quale cittadino vedremmo crescere? Niente più storia, geografia, filosofia, sociologia, solo uno schermo vuoto, una pagina bianca, un ammasso di radici strappate.
Ma ragionando intorno al tema si potrebbero anche recuperare le riflessioni che un ancora acerbo studioso meridionale svolse alla metà dell’Ottocento. Alludiamo a Francesco De Sanctis, intellettuale irpino che il Politecnico federale di Zurigo chiamò ad occupare la cattedra di letteratura italiana nel 1856. Nella sua prolusione, consapevole di aver di fronte una platea piuttosto scettica, De Sanctis s’inventò un dialogo con un «giovane amico di Napoli» apertamente refrattario allo studio delle lettere. Obiettava l’amico al maestro: «Credi tu che una terzina di Dante mi possa toglier di dosso i miei debiti, o che tutti gl’inni del Manzoni mi dieno un buon desinare? Filosofia, letteratura, storia! A che pro’? per finire in uno spedale! Oibò! Io studierò il Codice, farò un bell’esame e sarò fatto giudice. Che bisogno ha un giudice di Dante o del Petrarca?». Commento del De Sanctis: «Come vedete, è questo un magnifico ragionamento dal punto di vista asinino. E costui non aveva ancora diciotto anni! E parlava già a questo modo! Crebbe rozzo, selvatico, plebeo; divenne giudice; ed oggi questa bestia togata divide il suo tempo tra le condanne a morte, a’ ferri, all’ergastolo de’ suoi stessi compagni, ed i buoni bocconi».
De Sanctis non teneva in gran conto la genia dei legulei partenopei, una categoria che ben conosceva. Ora però dando avvio alle lezioni non aveva di fronte futuri giuristi, ma tecnici e ingegneri, uomini più abituati al calcolo che alla parola. Come guadagnarli alla causa allargando i loro orizzonti? La sua esortazione è rimasta negli annali della scuola politecnica: «certo se ci è professione che abbia poco legame con questi studi, è quella dell’ingegnere; e nondimeno lode sia al governo federale, il quale ha creduto che non ci sia professione tanto speciale e materiale, la quale debba andare disgiunta da una istruzione filosofica e letteraria. Prima di essere ingegneri voi siete uomini, e fate atto di uomo attendendo a quegli studi detti da’ nostri padri umane lettere, che educano il vostro cuore e nobilitano il vostro carattere».
De Sanctis rimase a Zurigo fino al 1860. Sappiamo dalle lettere che spedì al patriota Diomede Marvasi che il suo soggiorno non corrispose alle attese; roso dalla nostalgia e desideroso di partecipare alle ultime, cruciali fasi della lotta risorgimentale, De Sanctis decise di lasciare temporaneamente l’insegnamento per assumere la carica di ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia. Gli anni successivi lo videro protagonista della vita culturale e politica dello Stato unitario. Nel 1870 diede alle stampe il primo volume della sua fortunata Storia della letteratura italiana, testo in buona parte concepito durante gli anni zurighesi.
Non sappiamo se l’ateneo di Roma Tre, ideando il corso suddetto, avesse in mente questo precedente desanctisiano. Sì o no, poco importa. Conta la proposta, in un clima in cui ogni iniziativa volta a salvaguardare le discipline umanistiche, le «Humanities», merita un plauso incondizionato.