È una curiosa coincidenza il fatto che il giorno dedicato alla festa delle donne cada in marzo: «marzo» da «Marte», il dio della guerra e l’emblema dell’aggressività maschile. La scelta, per la verità, non è stata fatta apposta: nasce da un episodio che – come ha dimostrato la storica canadese Renée Clote – è stato inventato di sana pianta. La tradizione vuole che l’8 marzo del 1908 il proprietario di un’azienda abbia dato fuoco alla sua fabbrica di tessili di New York, occupata da 156 lavoratrici in sciopero che furono bruciate vive. Ma la ricerca della Clote non ha trovato traccia dell’episodio in nessun giornale dell’epoca, senza considerare che, quell’anno, l’8 marzo cadeva di domenica, giorno poco sensato per uno sciopero. Più tardi, in Russia, la diceria del massacro newyorkese fu ripresa dai bolscevichi, che a partire dal 1922 cominciarono a celebrare l’8 marzo. E di lì nacque e si diffuse anche fuori dei confini sovietici la «festa delle donne».
È giusto – e doveroso – che dopo millenni di misoginia e di prevaricazione maschile si renda omaggio alle donne. La letteratura occidentale di tutti i tempi straripa di maldicenze sulle donne, considerate «il peggiore dei mali», non solo nei versi di Euripide, ma anche in un libro sacro come il Siracide della Bibbia.
Soprattutto negli ultimi due secoli le donne hanno potuto dare prova di quanto non siano affatto inferiori agli uomini per capacità intellettuali: scrittrici eccellenti, scienziate, artiste, autorità politiche hanno mostrato in abbondanza quanto sia infondato il pregiudizio millenario, radicato in una cultura quasi monopolisticamente maschile, che relegava la donna a un rango inferiore per capacità intellettuali e morali. Platone e Aristotele dimostravano con argomenti diversi – filosofici e scientifici – questa inferiorità femminile; nel cristianesimo la storia di Eva faceva sì che alla donna venisse attribuita la colpa di tutte le sofferenze toccate al genere umano dopo la cacciata dal Paradiso terrestre; e, del resto, il dominio dell’uomo sulla donna era stato sancito dalla maledizione divina nella Genesi: «verso tuo marito ti spingerà il tuo desiderio, ed egli dominerà su di te». Bisogna arrivare a tempi moderni per assistere a una progressiva emancipazione e rivalutazione della donna. Ma ancora nel 1900 lo scienziato Paul Julius Möbius pubblicava il suo studio Sull’inferiorità mentale della donna: dove, valutando la differenza di peso dei cervelli maschili e femminili, dovuti a una diversa capacità della scatola cranica, ne traeva l’evidente «prova scientifica» dell’inferiorità mentale della donna: una sciocchezza che oggi, alla luce di quanto ci dicono le neuroscienze, può solo suscitare il riso.
Nella cultura occidentale, questa iniqua disparità dei sessi può dunque dirsi in gran parte rifiutata, anche se restano margini di ineguaglianza da colmare. Ma sostanzialmente la battaglia può dirsi vinta. E qui mi torna in mente la domanda che una donna di straordinario talento, che si è battuta per il riconoscimento della pari dignità e di pari diritti tra uomo e donna, si poneva a metà del secolo scorso: «Che cosa perdiamo, se vinciamo?». Si tratta di Simone De Beauvoir, che nel 1949 pubblicava Le Deuxième Sexe, subito salutato come una pietra miliare delle rivendicazioni femministe; ma la De Beauvoir era troppo intelligente per non esaminare compiutamente la questione. Certo, si batteva per uguali diritti e doveri – civili, politici e giuridici – per entrambi i sessi; ma temeva anche che il conseguimento dell’uguaglianza giuridica facesse cadere ogni differenza, oltre alla diseguaglianza. E, da vera donna qual era, intravedeva con inquietudine l’effetto di livellamento, di indifferenziazione, che il processo di emancipazione avrebbe potuto trascinare con sé; un effetto che oggi appare assai più chiaramente. Più recentemente, il tema è stato ripreso da un’altra eccellente studiosa, Luce Irigaray, che nelle sue opere è tornata più volte sulla differenza sessuale e sulle naturali diversità di tendenze, di stile e di attitudini che ne conseguono. Nei suoi libri afferma decisamente che non è vero che uomini e donne sono uguali e rileva che «la neutralizzazione dei generi comporta un rischio di morte individuale e collettivo».
Non si tratta, dunque, di tornare ai bisticci tra Marte e Venere, ma di iniziare un nuovo percorso: dove ciascun sesso possa ritrovare una sua via, nel pieno rispetto della pari dignità dell’altro e della sua diversità.