Nel trambusto dei vicoli del suk, i negozianti sono alquanto tenaci. Con un misto di fascino e forza, esortano i turisti ad apprezzare la loro merce e li spingono a comprare al minimo cenno di interesse.
Sono a Marrakech solo da poche ore e non riesco a smettere di ammirare i colori, i dettagli dei palazzi, i portoni della Medina. La piazza Jemaa el-Fnaa, epicentro del traffico frenetico, di esibizioni artistiche e animate trattative commerciali, mi ha accolto nel cuore della notte. Un pesante e umido silenzio avvolgeva ogni cosa, mentre le strade godevano di una tregua temporanea dal traffico eterogeneo delle ore diurne: veicoli a due, tre, o quattro ruote, creature a quattro zampe o due gambe, alcune motorizzate, altre trainate a mano.
Ora che la luce del sole sta salendo alta nel cielo, il suk mi ha inghiottita interamente. Sono ipnotizzata dalla profusione di tessuti e manufatti appesi e, se solo non dovessi fare i conti con i limiti della compagnia aerea con cui tornerò a casa, avrei già comprato un appendiabiti in rafia a forma di cactus, un copriletto con pompon colorati, un tappeto così grande che sarebbe difficile trovare un posto dove distenderlo, e babbucce dai colori tanto audaci da far arrossire un pavone.
Mentre accarezzo un tappeto immaginando come apparirebbe ai piedi del mio divano, sento chiamare in inglese alle mie spalle. Mi giro istintivamente e vedo un uomo seduto in fondo a una bancarella di artigianato. È vestito di blu, ha un turbante in testa e fa cenno di avvicinarmi. Alle pareti gioielli d’argento adornati con pietre di vari colori e per terra un piatto enorme di couscous avvolto nel cellophane. Tra poco sarà ora di pranzo.
«Mi piacciono le tue scarpe. Vieni che ne faccio uno schizzo». I convenevoli qui non vanno di moda. Le avevo comprate a Vienna, queste scarpe rosa salmone; sono fatte interamente di materiale riciclato e leggerissime ai piedi. Pensando che sia un affare breve annuisco con impazienza, desiderosa di esplorare la città. Mi siedo su uno sgabello che non supera i venti centimetri di altezza e sfilo la scarpa sinistra senza sapere che rimarrò in questa posizione per delle ore.
Il venditore, di nome Jamal, non ha fretta. Prende la scarpa, la esamina e la rimette al suo posto. Si allontana fino all’ingresso del negozio, dove risciacqua con cura due bicchierini di vetro lasciando una macchia umida sulla strada polverosa, poi sparisce, lasciandomi sola. Dopo alcuni interminabili minuti, torna con una caraffa piena di acqua bollente e delle foglie di menta. Riempie i bicchieri fino all’orlo e la meticolosa preparazione del tè marocchino si conclude. L’aroma si diffonde nei pochi metri quadrati del negozio, e mentre Jamal disegna, esamino gli oggetti che mi circondano e gli chiedo cosa sono, a cosa servono. I gioielli che vedo alle mie spalle, mi spiega, possono essere utilizzati dai berberi come bussola.
Abituata ai marchingegni nostrani con ago e magnete, i conti non mi tornano, così chiedo al mio anfitrione di spiegarmene il funzionamento. Senza una parola, Jamal ha deciso che ho tutto il tempo del mondo, e se per un istante la cosa mi innervosisce, con impeto decido di abbandonarmi alla lentezza. Prendo il mio bicchiere di tè e appoggio la schiena alla parete, mettendomi in ascolto.
Jamal traccia linee brevi e sottili su un foglio di carta con la punta della penna, delineando la forma della mia scarpa mentre mi spiega le condizioni fisiche e geologiche del Marocco che modellano gli habitat della sua gente. Distingue tra popolazioni sedentarie, transumanti e nomadi. La transumanza, uno stile di vita pastorale e agricolo, prevede lo spostamento periodico delle mandrie tra regioni ben definite con climi diversi, mantenendo una base sedentaria in un villaggio costruito. È nella regione del Medio Atlante che si verificano gli spostamenti stagionali più caratteristici. Infatti, la maggior parte dei pastori del Marocco centrale si sposta di pochi giorni, o addirittura di poche ore, dalla propria residenza quando le mandrie hanno pascolato troppo a lungo sugli stessi pascoli, o quando la stagione avanzata ha seccato l’erba. Naturalmente, più numerose e ricche sono le tribù, più estesi sono gli spazi destinati al pascolo.
Le piogge non sempre cadono come dovrebbero, così i pascoli a volte si estendono oltre i confini delle foreste e delle colture, creando tensioni tra i pastori di montagna e i contadini sedentari delle pianure. Solo quando ci sono abbastanza terre di passaggio per nutrire le mandrie e le terre coltivate non intralciano l’accesso alle sorgenti e ai pascoli, le relazioni tra di loro sono serene. Ma la politica indigena stabilisce una regola chiara: le colture non possono continuare a invadere le tappe del percorso. I nomadi, invece, si spostano a grandi distanze, utilizzando i cammelli e senza un habitat stabile.
Le tribù nomadi del Marocco si estendono verso il sud, il Wadi Noun, e verso est e sud-est, dalle pendici orientali del Grande Atlante. Gli Aït Youssi, i Marmoucha, gli Aït Bou Ichaouen, i Beni M’Guild sono solo alcune delle tribù nomadi che popolano queste regioni. Alcune tribù percorrono il Sahara solo di giorno, mentre altre si spostano anche di notte, utilizzando sofisticati strumenti di orientamento. La tecnologia, tuttavia, non ha sostituito del tutto le tradizioni: le donne berbere ricevono elaborati gioielli d’argento dai loro mariti al momento del matrimonio. Questi gioielli, oltre a essere ornamentali, rappresentano un simbolo di ricchezza e di status sociale, nonché una forma di protezione in caso di difficoltà o vedovanza.
E cosa c’è di meglio di un buon pezzo d’argento? Uno dei gioielli più diffusi è la «fibula», una pratica spilla utilizzata per fissare o unire tessuti come i mantelli. Il disegno della fibula è arrivato in Marocco con i Romani ed è essenzialmente una sorta di spilla ancestrale, con la sua forma triangolare che rappresenta, secondo alcuni, la donna e la tenda, quindi la casa o la famiglia.
Un’altra forma comune è l’agadez, o croce del sud, tradizionalmente originaria delle tribù tuareg. Questi braccialetti d’argento, amuleti, collane e pietre semipreziose forniscono alle donne una dote che possono barattare con denaro o con oggetti necessari al sostentamento della famiglia.
Ma che cosa c’entrano le bussole?, chiedo a Jamal. Lentamente l’uomo posa la scarpa e, con la penna che tiene in mano, indica il foro al centro di tutti i ciondoli. «Vedi questo? D’estate, nel deserto, lo scirocco solleva così tanta sabbia che per giorni e giorni non si riesce a vedere un bel niente. Per orientarsi nel deserto, basta inserire un bastoncino qui e osservare l’ombra che proietta per sapere dove andare. Di notte, invece, la bussola può essere usata per osservare la stella polare; scorgendola attraverso il foro, indicherà la direzione del sud».
La pozzanghera che si era formata all’ingresso della bancarella è sparita e la polvere si è riappropriata della strada. La sagoma della mia scarpa occupa un angolo del foglio bianco, accanto a scarabocchi indecifrabili. Tra qualche anno, medito tra me e me, forse tutti in Marocco porteranno scarpe simili a queste. Mi infilo la scarpa poggiata sul tavolo e faccio un cenno a Jamal mentre tratta con una cliente francese. Sarà la penombra del negozio o l’eloquenza del commerciante, ma il sole sembra più luminoso di quando sono arrivata ed esco dal negozio un po’ stordita. Ora una bussola mi sarebbe utile per orientarmi nelle strade del suk.
Le macro-regioni del Marocco
In Eléments d’ethnographie marocaine del 1932, Joseph Bouirrilly in Marocco individuava quattro macro-regioni.
1. La regione nord-atlantica, che dal nord di Casablanca sale fino a raggiungere Meknes, Fez e Taza; è caratterizzata da piogge abbondanti e terre fertili, ed è attraversata in tutte le direzioni da un sistema naturale di vie di comunicazione. In questo vasto territorio si trovano pascoli e materiali naturali che possono essere utilizzati per la maggior parte dell’anno.
2. La regione dell’Atlantico meridionale, che si estende a sud di Casablanca: è una regione di steppe, cioè di pianure erbose dolcemente ondulate, con poca acqua, dove crescono spontaneamente erbe e piante cespugliose. In questa regione, che presenta pascoli più scarsi e utilizzabili solo in inverno, ci si dedica soprattutto alla coltura dei cereali. L’entroterra forma una steppa che può essere utilizzata come pascolo durante l’inverno. Le parti a diretto contatto con la montagna, dove talvolta abbondano ruscelli e sorgenti, hanno pascoli utilizzabili in ogni momento.
3. La regione orientale è una regione di steppe con un clima continentale, molto poco piovoso, freddo d’inverno, molto caldo d’estate con specie di oasi lungo i fiumi.
4. Le steppe della regione atlantica meridionale degli altopiani e del Marocco orientale erano regioni più pastorali che agricole, percorse per buona parte dell’anno da pastori che si spostavano man mano che i pascoli si assottigliavano, impoverendosi con la stagione calda. In queste regioni si può notare che non esistono villaggi, ma grandi agglomerati, importanti mercati in netto contrasto con la vita rurale che, ancora oggi, si sviluppa alle porte delle città. Un’altra caratteristica di queste regioni è che le coltivazioni si trovano in prossimità di punti d’acqua e dove è stata possibile l’irrigazione. La coltivazione di alberi si riduce a specie adattate al clima secco e alle brusche variazioni di temperatura, come l’olivo, il fico, la vite in particolare e, nell’estremo sud, l’argania e la palma.
Il Rif e la Jbala sono regioni con un regime essenzialmente diverso da quello dell’Atlante, proprio per il modo in cui si distribuiscono le acque; vi si sviluppa una vita sedentaria, pastorale e agricola. I pascoli sono abbondanti, ben localizzati, utilizzabili tutto l’anno, e i villaggi sorgono in prossimità di questi pascoli, più sulle alture che nei fondi delle valli, che sono spesso deserte. Le montagne dell’Atlante presentano, da un lato, valli molto umide e, dall’altro, pianure e pendii interni, a est e a sud, estremamente secchi.
Le macro-regioni del Marocco
In Eléments d’ethnographie marocaine del 1932, Joseph Bouirrilly in Marocco individuava quattro macro-regioni.
1. La regione nord-atlantica, che dal nord di Casablanca sale fino a raggiungere Meknes, Fez e Taza; è caratterizzata da piogge abbondanti e terre fertili, ed è attraversata in tutte le direzioni da un sistema naturale di vie di comunicazione. In questo vasto territorio si trovano pascoli e materiali naturali che possono essere utilizzati per la maggior parte dell’anno.
2. La regione dell’Atlantico meridionale, che si estende a sud di Casablanca: è una regione di steppe, cioè di pianure erbose dolcemente ondulate, con poca acqua, dove crescono spontaneamente erbe e piante cespugliose. In questa regione, che presenta pascoli più scarsi e utilizzabili solo in inverno, ci si dedica soprattutto alla coltura dei cereali. L’entroterra forma una steppa che può essere utilizzata come pascolo durante l’inverno. Le parti a diretto contatto con la montagna, dove talvolta abbondano ruscelli e sorgenti, hanno pascoli utilizzabili in ogni momento.
3. La regione orientale è una regione di steppe con un clima continentale, molto poco piovoso, freddo d’inverno, molto caldo d’estate con specie di oasi lungo i fiumi.
4. Le steppe della regione atlantica meridionale degli altopiani e del Marocco orientale erano regioni più pastorali che agricole, percorse per buona parte dell’anno da pastori che si spostavano man mano che i pascoli si assottigliavano. impoverendosi con la stagione calda. In queste regioni si può notare che non esistono villaggi, ma grandi agglomerati, importanti mercati in netto contrasto con la vita rurale che, ancora oggi, si sviluppa alle porte delle città. Un’altra caratteristica di queste regioni è che le coltivazioni si trovano in prossimità di punti d’acqua e dove è stata possibile l’irrigazione. La coltivazione di alberi si riduce a specie adattate al clima secco e alle brusche variazioni di temperatura, come l’olivo, il fico, la vite in particolare e, nell’estremo sud, l’argania e la palma.
Il Rif e la Jbala sono regioni con un regime essenzialmente diverso da quello dell’Atlante, proprio per il modo in cui si distribuiscono le acque; vi si sviluppa una vita sedentaria, pastorale e agricola. I pascoli sono abbondanti, ben localizzati, utilizzabili tutto l’anno, e i villaggi sorgono in prossimità di questi pascoli, più sulle alture che nei fondi delle valli, che sono spesso deserte. Le montagne dell’Atlante presentano, da un lato, valli molto umide e, dall’altro, pianure e pendii interni, a est e a sud, estremamente secchi.
Lo spirito di un popolo libero
Considerati gli indigeni del Marocco, i berberi si definiscono amazi, o «popolo libero». Si dividono in Botr e Branès; questi ultimi costituiscono la maggioranza della popolazione berbera. Rappresentano circa il 60% della popolazione del Maghreb (Marocco, Algeria, Tunisia) e sono suddivisi in decine di gruppi etnici e migliaia di tribù.
Molti berberi sono nomadi o seminomadi e il loro sostentamento si basa sull’allevamento e sull’agricoltura. Gruppo seminomade che abita principalmente la regione del Sahara in Nord Africa, i Tuareg hanno una cultura particolare e sono noti per il loro abbigliamento tradizionale, che comprende lunghe vesti fluenti e foulard che li proteggono dal duro sole del deserto. Sono spesso coinvolti nel commercio e nel trasporto attraverso il Sahara.
Gli Gnawa sono una popolazione che discende dagli schiavi portati in Marocco dall’Africa occidentale, e vantano una tradizione culturale e musicale unica, che incorpora elementi della cultura africana, islamica e berbera. Molti Gnawa vivono nelle regioni desertiche del Marocco e dipendono dalla musica e dall’intrattenimento per il loro sostentamento. Gli Hassaniya sono una popolazione che abita principalmente la regione del Sahara occidentale del Marocco. Sono un popolo nomade che si basa sull’allevamento e sull’agricoltura per il proprio sostentamento e hanno una lingua e tradizioni culturali distinte, fortemente influenzate dalle loro radici arabe beduine.
Questi sono solo alcuni esempi delle diverse popolazioni che vivono nelle regioni desertiche del Marocco. Ogni gruppo ha una cultura, una storia e uno stile di vita unici, plasmati dall’ambiente e dalle sfide che devono affrontare vivendo nel deserto. Le radici della cultura berbera affondano nella storia del Marocco, caratterizzata da un forte legame con la terra e la spiritualità, e da un grande senso di comunità basato sula condivisione del cibo.
L’apertura a influenze mediterranee, africane, orientali, europee e internazionali ha definito le sue caratteristiche attuali. Quello berbero è un popolo millenario che ha mantenuto la propria lingua e cultura per almeno 3mila anni, a riprova del fatto che la loro scrittura, chiamata tifinagh, è antica quanto il fenicio.
L’attuale Maghreb era un tempo condiviso da tre grandi gruppi: i Masmoudas, gli Zénètes e i Sanhadja, a loro volta composti da un gran numero di tribù in costante lotta tra loro.
Per queste tribù, che vivevano di pastorizia, l’espansione dei territori di pascolo, le rotte di transumanza e l’accesso all’acqua erano questioni dalle quali scaturivano spesso conflitti, a cui si aggiungeva l’avidità dei beni che circolavano sulle rotte commerciali.
Se in Europa è diffusa la tendenza a considerare la proprietà della terra, l’attaccamento al suolo e la sedentarietà come simboli di uno status sociale superiore, questa concezione risale a quella della città antica, greca e soprattutto romana: alla base della società vi erano la tomba, la casa, il campo familiare.
Diverso è il discorso in Oriente e in buona parte del Nord Africa, dove le condizioni geografiche e climatiche sono diverse a seconda della regione. Se alcune favoriscono la vita agricola e sedentaria, altre, al contrario, obbligano gli abitanti a sottomettere la loro esistenza a quella delle loro mandrie che non possono sussistere senza pascoli abbondanti. Devono quindi spostarsi in continuazione man mano che la stagione avanza e i pascoli si esauriscono.