Uno schermo non serve solo per schermare, sfruttando una superficie per proteggere, ma sullo schermo – quello cinematografico per esempio – si può anche proiettare. Allora lo schermo diventa una superficie per proiettare immagini, ma non solo: anche noi spettatori, quando guardiamo un film, proiettiamo sullo schermo il nostro mondo interiore, i nostri valori, i nostri desideri, i nostri ricordi e le nostre aspettative. Per questo lo schermo si carica di un valore aggiuntivo, che è quello di riflettere.
Come ricorda l’antropologo Marc Augé in Casablanca – un libricino autobiografico ispirato al capolavoro di Michael Curtiz –, un film prende vita nella convergenza di tre sguardi: lo sguardo del regista, lo sguardo del protagonista, e lo sguardo dello spettatore. Oltre a proteggere e proiettare, lo schermo riflette, nel senso che ci restituisce sguardi diversi. Lo schermo è dunque allo stesso tempo protezione, proiezione, e riflessione. Cosa meglio di uno schermo cinematografico può, quindi, riflettere la nostra società, trasformandosi in uno specchio mutevole della nostra epoca?
Dopo esserci occupati, nelle scorse settimane, di scrittori in vacanza e di antropologia del turismo, parleremo di alcuni film proiettati nelle nostre sale in queste settimane. In apparenza un documentario e un film sul turismo balneare non hanno molto in comune con un film come Barbie o un blockbuster come Meg 2. Nondimeno, in tutti è presente l’elemento balneare: il filo conduttore sarà quindi, oltre che tematico, legato al medium del cinema. Tutti questi film, poi, riflettono un fenomeno che contrassegna la nostra epoca: la volontà, e forse anche la necessità, di vivere esperienze di puro divertimento senza conseguenze.
È un po’ come se le persone cercassero, oggi più che mai, di staccare la spina, di divertirsi senza pensare. L’imperativo del lasciarsi andare può essere vissuto pienamente solo in un contesto in cui non ci sono rischi, e ci si può abbandonare a divertimenti privi di conseguenze. Come allo zoo o in un safari organizzato, quando le belve sono molto vicine, ma pur sempre a distanza di sicurezza. O come quando si prende parte ai mille passatempi offerti dai villaggi turistici, e si sa già che facendo acquagym e hydrobike non c’è pericolo di farsi male. E anche là dove esistono piscine con le onde artificiali, queste non sono mai troppo alte da insidiare i bagnanti.
Quest’anno, il tema del turismo balneare è stato oggetto di due film del Locarno Film Festival. Il documentario Vista mare di Julia Gutweniger e Florian Kofler, per esempio, racconta i retroscena di alcune note località balneari sulla costa adriatica italiana. Il film si apre, appunto, con una inquadratura che mostra una vista sul mare. Siamo all’inizio della stagione turistica, le spiagge sono ancora vuote, ma assistiamo al progressivo allestimento di quella gigantesca coreografia che farà da sfondo alla marea di turisti che, a poco a poco, invaderanno quelle stesse spiagge. Lungo tutto il documentario, la cinepresa indugia sui lavoratori che rendono tutto possibile, dall’organizzazione all’animazione, fino a al mantenimento e alla pulizia. Come un cerchio che si chiude, il documentario si conclude con la fine dell’estate, la partenza dei turisti e lo svuotamento delle spiagge: è l’epilogo della stagione balenare.
In Animal, film di finzione presente anch’esso a Locarno che ha fruttato all’attrice Dimitra Vlagopoulou un Pardo per la migliore interpretazione, la prospettiva si inverte: qui la regista Sofia Exarchou decide di raccontare il punto di vista di un gruppo di animatori che, sotto il sole cocente della Grecia, si preparano ad accogliere e intrattenere gli ospiti di un resort all-inclusive. Muovendosi in uno scenario di decorazioni di carta, indossano costumi scintillanti e inscenano spettacoli di ballo per allietare le giornate dei turisti. Come indicano le note di regia che accompagnano il film, Animal mostra dall’interno quella macchina turistica che è l’hotel all-inclusive, invitando lo spettatore a porsi la seguente domanda: «Che cosa significa dover indossare lo stesso costume, interpretare gli stessi ruoli e recitare con la stessa energia e gli stessi sorrisi tutti i giorni?».
L’intrattenimento rassicurante, e le attività di svago senza conseguenze, non sono solo il timbro di fabbrica dei villaggi turistici, ma qualcosa di simile succede anche a chi, al cinema, si rilassa su una comoda poltrona mentre sullo schermo appare la sagoma inquietante del megalodonte di Meg 2. Estintosi circa 3 milioni di anni fa, si suppone che le dimensioni del megalodonte fossero di gran lunga più imponenti di quelle di un normale squalo. La supposizione è d’obbligo, perché le informazioni certe di cui si dispone non sono moltissime: pochi reperti fossili, principalmente i denti (megalodon in greco significa «grande dente»), e pochi altri resti non sufficienti per fornirci dati sul suo intero corpo.
Speculazioni scientifiche a parte, l’esistenza di questa inquietante creatura degli abissi, vero e proprio predatore dei predatori, rimane avvolta da un’aura di mistero, e ciò non fa che alimentarne la leggenda. E quando la leggenda prende a prestito informazioni scientifiche, poi finisce per mescolarle alla finzione. Non ci sorprende più di tanto, dunque, se l’aura leggendaria del megalodonte abbia fornito lo spunto alla realizzazione di un recente blockbuster che affida a Jason Statham il ruolo di protagonista.
Se Meg 2 illustra la tendenza all’esagerazione e a un certo gigantismo tipico del cinema di oggi, Barbie, da parte sua, incarna un’altra figura di stile, che è quella dell’ammiccamento (il termine deriva dal latino micāre, «guizzare, scintillare»). Anche Barbie, in fondo, è un divertimento senza conseguenze. Il film sembra mettere, almeno in apparenza, in discussione la società, ma tutto rimane sul terreno dell’immaginario senza che gli spettatori debbano prendersi impegni con la realtà. Tuttalpiù, il film di Greta Gerwig trasmette l’impressione edificante di essere dalla parte giusta, di essere saliti sul treno della contemporaneità; e di poter percorrere in tutta tranquillità le tratte accidentate del politically correct, senza il timore di ritrovarsi dalla parte dei retrogradi.