La Grassa, la Dotta e la Rossa, ai piedi di San Luca

Itinerario - Sono ben 62 i chilometri di archi che definiscono Bologna anche la città dei portici iscrivendo questi ultimi tra i patrimoni dell’Unesco
/ 21.08.2023
di Luigi Baldelli, testo e foto

La chiamano «La Grassa», ma non è solo la città del mangiare bene. Non è nemmeno solo la città con la più antica università del mondo occidentale (fondata nel 1088) che le regala il soprannome «la Dotta». E non è solo «la Rossa», altro nomignolo che deriva dal colore dei mattoni con cui sono costruite case e torri del suo centro storico. Bologna è anche la città dei portici con i suoi 62 km di archi, di cui circa 40 km solo nel centro storico; un patrimonio architettonico divenuto oggi patrimonio dell’Unesco.

Ci sono quelli in legno lungo la strada Maggiore, quello chiamato «dei bastardini» perché qui aveva sede un orfanotrofio. Oppure quello più alto del palazzo arcivescovile che raggiunge i dieci metri o quello più stretto di soli 95 centimetri. Ma c’è anche il portico più lungo del mondo, quello che parte da Porta Saragozza e arriva su in cima al Colle della Guardia con la sua chiesa di San Luca che domina Bologna. Un portico ininterrotto di 3800 metri, 666 arcate e 489 scalini.

Due simboli di Bologna, i portici e San Luca che si incontrano. Non sono forse i portici più belli e non si trovano in centro, però hanno l’onore di condurre verso l’importante luogo sacro, il santuario di San Luca appunto, che da qualunque parte si arrivi a Bologna già da lontano mostra la cupola e subito fa sentire a casa. Un luogo che rappresenta un punto fermo e che fa parte della vita dei bolognesi. Perché tutti i cittadini doc della Grassa almeno una volta nella vita hanno detto la frase: «Se succede vado a piedi fino a San Luca». E allora basta indossare un paio di scarpe comode per fare questo pellegrinaggio e cercare di capire ancora di più cosa vuol dire «salire fino a San Luca».

Il desiderio di salire

Se l’inizio che è in pianura, dopo essere partiti da Porta Saragozza, è forse il meno affascinante, basta arrivare all’Arco del Meloncello, in stile rococò del 1700 ai piedi della salita, per iniziare a sentire il desiderio di andare verso la cima del colle, lasciandoci alle spalle le vie trafficate per avviarci lungo un viaggio che ci porterà in un luogo diverso, bello e accogliente, per scoprire il quale ci sarà però richiesta un po’ di fatica. E subito, dopo il Meloncello, alla vista si mostra una serie infinita di archi e volte continui.

Nella prima parte della salita, le aperture dei portici sono sulla destra, mentre a sinistra, sul muro, i numeri indicano l’arco dove ci si trova e poco sotto scorrono le lastre di pietra con i nomi di chi ha pagato le ristrutturazioni di un pezzo di muro o di una volta. Alcune hanno solo la scritta con i ringraziamenti a chi ha finanziato l’opera, mentre altre sono omaggi e ricordi, come quello di Gina e Saverio, che hanno voluto celebrare i loro 50 anni di matrimonio facendo una donazione per risistemare un muro.

Il sole che entra dalle aperture disegna in terra una lunga ombra dei portici creando un effetto grafico che sembra una grande onda nera. L’interminabile portico non è solo la meta di turisti e bolognesi che vanno a rendere omaggio al santo protettore della città. Spesso, infatti, si incontrano atleti che corrono in entrambe le direzioni. «Per noi bolognesi che pratichiamo il jogging, il portico di San Luca è un’ottima palestra – mi dice Mario, maglietta, pantaloncini e scarpe d’ordinanza, la fronte imperlata di sudore e il fiato grosso per la fatica – sia d’estate che d’inverno puoi venire qui a correre: è una bella arrampicata».

Anche una bella passeggiata, dove turisti stranieri, accaldati e sudati, muovono un passo dopo l’altro, verso la cima che, a causa dell’effetto ottico dei portici, sembra non arrivare mai. C’è chi si riposa sui muretti sotto gli archi e chi sugli scalini che ogni tanto si incontrano. Quindici le edicole votive, che punteggiano il tragitto, e che rappresentano il mistero del Rosario. Non mancano operai con gilet arancioni e caschetto giallo in testa, intenti nelle opere di ristrutturazione: una crepa sul muro, l’intonaco che è si staccato da un arco, una riverniciata alla volta. A metà strada, il muro passa sulla destra e i portici si aprono sulla sinistra, sui colli bolognesi. È l’occasione per fermarsi e riprendere fiato e iniziare ad ammirare il panorama.

Scambio due parole con una signora di un’età indefinita, capelli canuti, occhiali da vista e un piccolo cane nero al guinzaglio, che si racconta, con la classica cadenza emiliana e la «s» dolce e sonora: «Faccio questa passeggiata da quando ero piccola. Ho sempre abitato qui vicino. Il mio babbo mi diceva che la prima volta l’avremmo fatta insieme. E così è stato. Avevo solo otto anni. E da allora, quando posso, vengo qui a camminare sotto i portici». Si aggiusta i capelli, riprende fiato e poi continua: «Per noi bolognesi questi portici sono una mano santa. Puoi venire qui d’inverno quando piove e camminare senza bagnarti, oppure d’estate, camminare all’ombra e respirare l’aria dei colli». Ci salutiamo e lei riprende a scendere, ma prima di sparire alla vista la vedo che si ferma davanti a una Cappella del Mistero e sistema dei fiori.

Dopo un’ora circa, una croce accoglie chi arriva alla fine della camminata sotto i portici verso il Santuario. Tutto intorno ci sono giardini e prati che si riempiono di scolaresche in visita generando un sottofondo di voci allegre e risate felici. Costruito intorno alla metà del 1700, il santuario ha una forma circolare con una sola navata e una cupola maestosa. Al suo interno i dipinti di Guido Reni e di altri artisti di scuola bolognese. Le statue sono dello scultore locale, Angelo Piò, e di Bernardino Cometti, scultore di origine piemontese, famoso a Roma. Poi è tutto un susseguirsi di marmi e bronzi.

Prima di riposarsi di nuovo seduti nel giardino o in una panchina all’ombra, bisogna fare un ultimo sforzo e salire un altro centinaio di scalini, attraverso una stretta e ripida scala a chiocciola all’interno della chiesa, per arrivare alla sommità della cupola. Dove da un piccolo terrazzo si potrà ammirare un paesaggio fantastico, con i colli bolognesi che si perdono a vista d’occhio da un lato, mentre davanti ci sono gli Appennini che dividono l’Emilia dalla Toscana, e più sotto la città di Bologna.

Intanto in chiesa c’è chi accende un cero votivo, chi prega e chi si siede solamente per stare un po’ al fresco. Nei giardini, un piccolo gruppo di ragazzi festeggia la laurea di una loro amica, che è venuta a rendere grazia a San Luca. In testa la classica corona di alloro e dalle sue labbra, la famosa frase dei bolognesi: «Lo avevo promesso, se mi laureavo sarei venuta a piedi fino a San Luca». Seduto su una panchina, prima di affrontare la discesa verso la città, parlo con un prete che mi spiega quanto è davvero importante San Luca per questa terra: «Vedi, io penso che per i bolognesi, sapere che c’è il santuario è come sentirsi protetti. Basta alzare gli occhi verso il colle della guardia e avere la certezza che vedrai sempre la cupola». Si sistema il colletto della camicia, incrocia le mani e poi continua: «I lunghi portici per arrivare fin qui sono come un cordone ombelicale che lega il santuario alla città. Li unisce in modo indelebile». Si guarda intorno, fa un respiro profondo e riprende a parlare: «Devi vedere che bello, quando c’è la processione nel mese di maggio, che fa scendere la Madonna dal santuario alla città: tantissima gente si affolla lungo il tragitto sotto i portici».

Ci salutiamo, ma prima di andarmene mi dice ancora: «Che poi il nome completo è Santuario della Beata Vergine di San Luca, ma tutti lo chiamano solo San Luca. E la tradizione vuole che il giorno della processione piova sempre».