Vi potete immaginare in Svizzera un tassista che si ferma di botto, scende dalla macchina e si mette a ballare perché vi sta facendo ascoltare musica popolare della sua regione e non può fare a meno di alzare la braccia al cielo e muoversi a ritmo? No, nemmeno io. Per questo le mie vacanze, se posso, le trascorro in qualche Paese dell’Est. Tipo la Romania.
Siamo partiti insieme a Elena, che sta tornando a casa a Bucarest, dal figlio. Ci prestano un appartamento nuovo di zecca che lei ha comperato per lui, ormai trentenne, con un buon lavoro e una fidanzata. Siamo in periferia e questo ci piace. L’appartamento, rinnovato con cura, si trova dentro a un block, come si chiamano questi palazzoni dell’epoca comunista. Contrasto fra dentro e fuori. Noi nostalgici preferiamo il fuori, ma capiamo che per viverci, è meglio dentro.
Bucarest è una sorpresa. Tutta la Romania, in realtà, è una sorpresa.
La capitale è verde, con parchi meravigliosi, laghetti dove noleggiare una barca e provare a remare, giostre tra l’arrugginito e il mondo delle meraviglie, chioschetti dove prendere una buona birra Ursus e un gelato. La città è a strati. Si attraversa con bus, tram o metrò; il biglietto lo si può comperare con un tocco di postcard e in mezzo al traffico ci sono chiesine antichissime salvate come da noi si fa con le piante secolari. Restano palazzi e ville in stile Art Déco, testimoni di quando Bucarest era come Parigi, piena di artisti, università, mossa dai venti fiduciosi di inizio Novecento. Poi l’utopia che si fa strada e piano piano viene corrosa dalla follia umana. Nicolae Ceauşescu nel 1970 compie un viaggio a Pyongyang e si innamora della Corea del Nord. Del potere. Dell’idea di dinastia famigliare. Rade al suolo quartieri interi, esilia nei block migliaia di persone e lascia al freddo il Paese per costruire il secondo palazzo più grande del mondo dopo il Pentagono: Casa del Popolo, l’ha chiamata, come una beffa.
Quando Elena l’ha visitata qualche anno fa, ha rivisto passare davanti agli occhi tutto il corteo di morti e sacrifici che ha comportato. Lo stomaco le è rimasto chiuso per giorni.
Le badanti quando tornano a casa, a volte visitano il loro Paese. Ma soprattutto curano i propri genitori, fanno pulizie, vanno a trovare i parenti, conoscono le nuove fidanzate dei figli, portano fiori, dolci e frutta in cimitero, vanno dal dentista. In questo viaggio ne seguiamo tre. Oltre a Elena, c’è Sorina, che viene dal nord del Paese, e Silvia, di Timişoara, quest’anno Capitale europea della Cultura. Ma durante il viaggio conosciamo molte altre persone, soprattutto donne, perché qui è chiaro che molto succede grazie a loro. Ci sono quelle che sono partite a lavorare per pagare gli studi, gli alloggi, le cure, ai propri cari. Ci sono quelle che vorrebbero tornare ma i figli continuano a chiedere: «Puoi lavorare ancora un anno o due, che mi sistemo?» Ci sono quelle che sono tornate ma non si trovano più: «Come faccio a vivere qui in campagna, che per vent’anni sono stata a Roma?» E quelle invece che non sono mai partite: «Le mie sorelle sono a Londra, i miei genitori sono a Londra, mio fratello è con loro. Sono io l’unica che si sente espatriata».
La Romania è un Paese capace di stupire il visitatore sia per la propria storia sia per la varietà
La seconda tappa del nostro viaggio però la visitiamo da soli. È la Transilvania, che abbiamo scelto perché pensiamo che Dracula sia divertente per i bambini. Invece risulta l’aspetto più deludente di tutto il viaggio. Il castello (impressionante, bellissimo) dove sembra sia nata la leggenda è molto turistico e in realtà ha poco a che vedere con il Conte Vlad. Tutto il resto del territorio, però, è uno spettacolo inatteso. In questa regione, ormai otto o nove secoli fa erano state deportate intere comunità di tedeschi dal Regno d’Ungheria per popolare queste dolci e verdi colline. In Transilvania si passa così da un borgo all’altro fatto di case dai tetti rossi spioventi, chiese fortificate e birrerie.
Braşov, Sibiu, Sighişoara. Cittadine bellissime, da non perdere. E poi una scoperta nella scoperta: Viscri. Un villaggio dalla storia incredibile, che ci racconta Mihai, il proprietario dell’alloggio in cui soggiorniamo. «Negli anni Novanta, dopo la morte di Ceauşescu, la Romania ha fatto un accordo con la Germania: per ogni rumeno di lingua tedesca che emigrava un compenso veniva pagato al nostro Governo. Tantissimi sono partiti e hanno lasciato indietro interi villaggi abbandonati. Qui a Viscri sono rimaste sei famiglie. Per fare qualcosa hanno restaurato le facciate lungo la strada principale, le hanno ridipinte come dovevano essere una volta, con colori pastello e le decorazioni tradizionali. Poi sono venuti a sapere che il Principe Charles a Sibiu stava finanziando dei lavori di restauro, hanno creato una fondazione e adesso eccoci qui».
Viscri è uno dei paesi più belli del mondo, questo è certo (tra l’altro il re oggi è proprietario di una di queste case). Non c’è niente, neanche un’insegna, che possa deturpare questa strada acciottolata bordata di case seicentesche; gli abitanti stanno facendo una petizione per istituire l’obbligo di lasciare le automobili ai margini del paese. Ora che sono state ristrutturate anche le case dietro le facciate, vari proprietari le hanno adibite a pensioni; gli alloggi sono tutti con mobili e tappeti tipici delle comunità di Sassoni, come venivano chiamati i tedeschi che vivevano qui; la cucina è rustica e casalinga. Molti però sono ancora gli abitanti con una stalla sul retro della casa e la mattina si assiste a una piccola transumanza di giornata. In silenzio, alle sei, i pastori attraversano il paese e chi ha una mucca, delle capre o qualche pecora, le porta fuori in strada e queste seguono il gregge, fino a un pascolo poco distante. Alle otto di sera tornano, e ognuna, manco fosse il pedibus, rientra da sola nel suo alloggio.
Il nostro tassista, Valentin di Braşov, ex campione nazionale di box per tre anni consecutivi, inizia subito a parlare con Mihai della possibilità di portare i suoi ragazzi a fare allenamenti di pugilato qui, in questo ambiente salutare per anima e corpo. «In Romania», ci dice, «ogni giorno qualcuno costruisce una nuova chiesa, ma per i progetti sociali, la sanità, l’educazione e lo sport, c’è ancora molto da fare».
Il giorno seguente Vali ci porta tra i monasteri della Bucovina, dove in effetti ci riempiamo della spiritualità di queste chiese così tanto affrescate che le nostre amiche di là ci spiegano: «Volevano disegnare tutta la Bibbia su ogni chiesa, per questo gli affreschi sono anche all’esterno». Un’altra cosa che non sarebbe successa in Svizzera: le amiche di Sorina, che non conoscevo prima di arrivare dalle loro parti, hanno preso libero dal lavoro per portare in giro me e la mia famiglia dalla mattina alla sera, rifiutandosi persino di condividere le spese per la benzina. Oltre che dei monasteri, questa è la terra dei carretti con il cavallo (che i contadini usano per lavoro ma che si possono anche affittare per fare un giro nel bosco), del treno a vapore, delle ciorbe, minestre squisite con carne di pollo o di agnello e verdure.
Finiremo a Timişoara, dopo un lungo viaggio in treno da Est a Ovest; di questa città al confine con la Serbia, ci sorprende l’aria sveglia, culturale, universitaria. Qui gli edifici più belli non sono i sopravvissuti al fascino decadente di Bucarest, ma nemmeno sono messi in mostra come a Braşov: qui sono vivi e basta e hanno dentro il Politecnico, il teatro d’Opera, l’Università. Da qui è partita la rivolta che ha portato alla caduta di Ceauşescu.
Silvia e il marito Constantin, che ne hanno fatto parte, ci portano al Museo della Rivoluzione. Sono emozionati, fieri. «Ce l’abbiamo fatta», ci raccontano, ma si rabbuiano presto. «Nel 1989 avevamo tutto per ripartire; la Romania non aveva un centesimo di debito e senza le follie del suo dittatore poteva diventare subito un Paese prospero. Ma velocemente abbiamo capito che siamo stati usati per un colpo di Stato da parte di gente che non voleva il bene del nostro Paese, ma solo il proprio benessere personale. E così si è ricominciato a lottare». Adesso il Paese è ancora corrotto e manca lavoro, ma si sente la fiducia che si sta risollevando. Nella Capitale europea della Cultura 2023, visitare Timişoara con due giovani degli anni Ottanta che lottavano per la libertà e il loro figlio Florin, giovane artista di oggi, che lotta per l’Arte, è un’esperienza che dà voglia di dire: «Mostrateci questo Paese, fateci partecipare, vogliamo vedere cosa succede qui».