Zuckerberg va in scena

Facebook – La testimonianza del Ceo davanti al Congresso dopo l’esplosione del caso di Cambridge Analytica è stata definita Apology Tour, il tour delle scuse. Nasceranno davvero ora nuove regole sulla privacy?
/ 16.04.2018
di Federico Rampini

In fondo gli scandali sono una costante nella vita di Mark Zuckerberg. Cominciò nel 2003, quando era ancora uno studente all’università di Harvard: dovette chiudere un sito che si chiamava Facemash: consentiva agli utenti di dare voti all’aspetto fisico dei loro compagni di studio, una trovata esposta all’accusa di sessismo perché molti lo usavano per stilare classifiche delle studentesse più carine. Quell’incidente iniziale, nella preistoria dei social media, è anche un monito che ci riguarda tutti: perché i Padroni della Rete hanno sfruttato spesso un pubblico compiacente, pronto a fare lo spogliarello virtuale per inseguire il miraggio della gratuità. Quando ci dicono che qualcosa è gratis su Internet, il prodotto in vendita siamo noi: quante volte ormai abbiamo sentito questo avvertimento, e abbiamo continuato a ignorarlo?

Facebook, la sua creatura fortunata, nacque l’anno successivo, il 4 febbraio 2004, sempre nel campus di Harvard. Da allora e per i 15 anni successivi ogni passo della sua folgorante carriera – trasferitasi nella Silicon valley californiana – è stato segnato dallo slittamento progressivo dei confini della privacy. Fino al ruolo di Facebook nel Russiagate 2016, come strumento della propaganda russa che lavorava per sabotare la candidatura di Hillary Clinton, a colpi di fake news. Infine con la vicenda di Cambridge Analytica, la società di marketing politico ingaggiata dalla campagna elettorale di Donald Trump, che ha saccheggiato i dati di 87 milioni di utenti americani… compreso lo stesso Zuckerberg. 

«I furti di dati da Facebook sono colpa mia – ha detto Zuckerberg la settimana scorsa quando è stato convocato per un’audizione parlamentare a Washington – e mi prendo tutta la responsabilità. Ma noi restiamo un’azienda idealista e ottimista, un forza positiva nel mondo. Su Facebook si è organizzato il movimento delle donne #MeToo, e la solidarietà con gli alluvionati dell’uragano Harvey». (Abile accostamento: con quei due esempi ha citato un movimento femminista che piace alla sinistra, e una mobilitazione civile della società texana di fronte alla calamità naturale, che lusinga la destra). Dismessa la T-shirt abituale, è arrivato all’appuntamento con il tempio della politica in giacca e cravatta il 33enne più ricco della storia umana; è perfino passato dal barbiere per «l’esame» al Senato di Washington.

Test attesissimo, e apparentemente gravido di rischi, quell’audizione al Congresso degli Stati Uniti dopo gli abusi gravi che hanno avuto come protagonista il suo social media e hanno creato sfiducia nei mercati, calo della valutazione di Borsa. «Un evento unico, straordinario», lo ha definito il presidente della Commissione Giustizia, il senatore repubblicano Chuck Grassley, confessando emozione perché «è venuto qui mezzo Senato, un fatto senza precedenti, ci sono 44 colleghi, certo sono numeri piccoli rispetto ai due miliardi di Facebook». C’erano più videocamere quel 10 aprile scorso al Senato che al collocamento multimiliardario in Borsa (febbraio 2012), l’aula traboccava di visitatori e perfino qualche manifestante.

Il protocollo si è inchinato al re dei social media esonerandolo dal giuramento di «dire tutta la verità». Ma le regole del rito che si è consumato la scorsa settimana sulla collina del Campidoglio americano erano già scritte e prevedibili, proprio come la deposizione iniziale di Zuckerberg. Era inteso che i senatori avrebbero fatto la voce grossa e la faccia feroce: la nazione li guardava, l’evento veniva videotrasmesso in streaming da tutti i siti del mondo, rara occasione di mostrarsi intransigenti in difesa dei diritti dei cittadini. Il multimiliardario con la faccia da adolescente è stato pronto a genuflettersi simbolicamente, recitare mea culpa, promettere che non lo farà mai più. Che poi cambi qualcosa è più problematico, quasi improbabile malgrado la gravità reale del Russiagate che collega indissolubilmente «la forza positiva» di Facebook alle oscure manovre per favorire l’elezione di Trump.

«Avete un pubblico che è cinque volte la popolazione degli Stati Uniti», ha esordito ossequioso il presidente della seduta, ma ricordando subito dopo che «87 milioni di cittadini hanno subito la violazione della loro privacy e questo non è un incidente isolato». Non si può neppure definire un incidente, visto che i ladri di dati «hanno sfruttato strumenti da voi creati per il vostro business». Occorrono misure immediate e drastiche, «lo status quo non funziona più». Zuckerberg ascoltava compunto anche l’intervento successivo, dai toni perfino più minacciosi. È toccato al presidente della Commissione Commercio (con supervisione sull’antitrust), il repubblicano John Thune, lanciare questo avvertimento: «In passato abbiamo lasciato che foste voi, le aziende tecnologiche, a regolarvi da sole. Ora non è più sufficiente». Puntando il dito contro l’enfant prodige della Silicon Valley: «La storia che lei ha creato rappresenta il Sogno Americano, ma stia attendo che non si trasformi in un incubo».

La senatrice Dianne Feinstein, decana democratica da San Francisco e quindi vicina di casa del golden boy, gli ha ricordato che grazie al suo social media «potenze straniere hanno manipolato la pubblica opinione». Arringhe spettacolari, ma cosa c’è di sostanza? Colpisce che a prendere la parola siano stati spesso senatori di età media molto avanzata: sembravano i nonni di Mark. Visibilmente a disagio con la terminologia tecnologica, inciampavano su alcuni termini, leggevano discorsi preparati dai loro staff, alcuni ammettendo candidamente di non avere mai usato un social media. Zuckerberg, che stipendia con decine di milioni un esercito di lobbisti, sapeva esattamente quel che rischiava: non molto. Ha passato l’esame dando prova di rispetto e umiltà.

Il pericolo concreto che da quell’audizione esca in futuro una nuova architettura normativa per i social media è minimo. I democratici sono troppo affezionati ai finanziatori liberal della Silicon Valley; i repubblicani sono ostili per ideologia ai controlli pubblici sulle aziende private e hanno indebolito l’antitrust. Zuckerberg aveva preparato bene i compiti. Ha annunciato che «presto avremo ben ventimila dipendenti che si occupano a tempo pieno di privacy e sicurezza, questo aumenterà i nostri costi e ridurrà i profitti ma è la cosa giusta da fare». Trasudava buonismo: «Per me conta che possiate rimanere sempre connessi con le persone che amate, darò sempre priorità all’interesse della comunità su quello dei clienti pubblicitari o venditori di app». Si è descritto come un militante per la democrazia e la libertà in un mondo dove «è in atto una corsa agli armamenti, potenze nemiche vogliono interferire con il nostro sistema di valori». Ha descritto un elenco di misure già prese per evitare che si ripeta la porcheria di Cambridge Analytica. Poi gli è sfuggito che queste misure erano state già prese in larga parte… nel 2014. 

Dalla sceneggiata di Washington è emersa un’ammissione interessante: Zuckerberg riconosce che Facebook ha una responsabilità sui contenuti che circolano sulla sua piattaforma, quindi a rigore dovrebbe essere trattato come come i media tradizionali che sono soggetti a regole e sanzioni ben più pesanti. A rigore dovrebbe essere sanzionato con multe se è lo strumento di diffusione di false notizie, diffamazione, calunnie. Molte voci autorevoli sostengono che il social media dovrebbe essere regolato come una utility: ma è poco probabile che questo accada. 

Alla fine da questa performance pubblica Zuckerberg in un certo senso ne è uscito «finalmente adulto». È stato un rito iniziatico, che lui ha affrontato con astuzia, cospargendosi il capo di cenere per limitare i danni. Si è preso il massimo di responsabilità, ha fatto la sua catarsi davanti alla nazione, senza concedere modifiche sostanziali al suo modello di business. Lo spettacolo di calcolata compostezza di questo 33enne che da solo «vale» più dei patrimoni di tutti i parlamentari messi insieme, ha messo in scena anche uno squilibrio immane tra la potenza di Facebook e l’incapacità della politica di elaborare regole per un nuovo mondo che le sfugge e quasi sempre la domina. Se l’è cavata bene sotto il profilo che più conta per un grosso azionista di una società quotata in Borsa: mentre lui parlava al Congresso il titolo di Facebook è risalito del 5%, recuperando una parte delle perdite provocate dagli scandali.

Il bilancio finale possiamo affidarlo ad un giornale che non è certo sospetto di tentazioni dirigiste, il quotidiano economico «The Wall Street Journal», l’organo più autorevole del neoliberismo. «La questione adesso – ha scritto il «Wall Street Journal» il 12 aprile al termine delle due audizioni di Zuckerberg a Camera e Senato – è se Washington vorrà creare regole che rispondano alle diffuse preoccupazioni sulla privacy digitale; e come gli eventuali nuovi vincoli penalizzerebbero il modello di business di aziende come Facebook che campano sul libero flusso dei dati». È sostanzialmente una domanda retorica. C’è poca probabilità che questo accada.