Yemen, in guerra anche il sud

Penisola araba – Con la conquista dell’ex capitale Aden da parte dei militanti del Security Belt, la risoluzione del conflitto appare più lontana che mai
/ 05.02.2018
di Marcella Emiliani

Nel giro di quattro giorni, dal 28 al 31 gennaio scorso in Yemen si è consumata l’ennesima tragedia: i militanti della Southern Resistance Forces (Srf), meglio conosciuti come Security Belt (Cordone di sicurezza), braccio armato del Southern Transitional Council (Stc), hanno dato l’assalto con tanto di carri armati all’aeroporto, al porto e infine al palazzo presidenziale di Aden, l’ Al-Mashaiq Palace, fino ad assumere, il 31, il controllo dell’intera città, la seconda in ordine di grandezza del Paese e soprattutto ex capitale della Repubblica democratica dello Yemen del Sud dal 1970 al 1990, quando avvenne la riunificazione dello Yemen del Nord con quello del Sud. Stando alla Croce rossa internazionale, il bilancio delle vittime sarebbe di 38 morti e 222 feriti, per l’agenzia stampa governativa Saba invece di 16 morti e 141 feriti. Sono comunque stime provvisorie.

Se i guerriglieri del Security Belt non sono entrati nel palazzo presidenziale è solo perché si sono trovati di fronte ai militari dell’Arabia Saudita che glielo hanno impedito, salvando probabilmente la vita al primo ministro Ahmed bin Dagher che si è asserragliato nell’edificio assieme a qualche sparuto ministro, mentre il presidente yemenita Abd Rabbo Mansour Ali Hadi era a Riad dove se ne sta in esilio fin dal 2015 dopo che la capitale dello Yemen, Sana’a, nel 2014 era stata conquistata dai ribelli Houthi del Nord, sciiti. Sempre nel 2015 peraltro è cominciata la guerra della coalizione guidata dall’Arabia Saudita contro gli Houthi, armati e sostenuti dall’Iran. Da allora il peso politico di Mansour Hadi è diventato quasi irrilevante. Molti lo considerano solo un burattino nelle mani di Mohammed bin Salman, l’erede al trono saudita, determinato a non far cadere lo Yemen nelle mani degli ayatollah di Teheran.

Fino all’inizio di quest’anno anche il Southern Transitional Council, guidato da Aidarous al-Zubaidi, militava a fianco del presidente Hadi e della coalizione saudita nella triplice guerra contro gli Houthi-Iran, contro al Qaeda nella penisola arabica (con acronimo inglese Aqap) e contro l’Isis, le cui file in Yemen si sono rafforzate dopo la caduta delle sue capitali Raqqa e Mosul in Siria e in Iraq. Poi al-Zubaidi ha lanciato un vero e proprio ultimatum ad Hadi: se entro il 28 gennaio non avesse proceduto a un rimpasto di governo e sloggiato il premier Ahmed bin Dagher i suoi sarebbero intervenuti. E non ha aspettato neanche un minuto prima di scendere in campo in armi. A suo dire il governo di bin Dagher è corrotto in massimo grado e soprattutto non investe risorse nel Sud «a tutto danno della sua gente che non ha mai vissuto in tali ristrettezze». Un’altra colpa del premier e del presidente Hadi sarebbe infine l’alleanza col partito islamista Yemeni Congregation for Reform meglio noto come al-Islah, nato nel 1990, legato agli inizi alla Fratellanza musulmana, poi messa fuori legge dall’Arabia Saudita nel 2013 come organizzazione terroristica.

Queste accuse sono vere o false? Difficilmente Riad avrebbe consentito al presidente Hadi di mantenere nella propria coalizione al-Islah se lo considerasse ancora un’organizzazione terroristica. Diverso il discorso sulla corruzione. Anche se è tutta da verificare, l’accusa è verosimile in un paese corrotto da sempre e ora ridotto allo stremo, in guerra da quattro anni, colpito da quella che l’Onu chiama «la più grande catastrofe umanitaria a livello mondiale» e la cui popolazione – oltre che dalle bombe – è decimata dal colera e dalla difterite. Un paese che è il più povero tra quelli arabi e vive di elemosine interessate che arrivano soprattutto dei potenti vicini, Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti. Del resto, anche la ribellione degli Houthi al Nord nel 2014 era stata motivata da una discriminazione assieme economica e politica da parte di Sana’a. Ma dietro la ribellione e quello che il primo ministro Ahmed bin Dagher il 28 gennaio scorso ha definito un vero e proprio colpo di Stato sembra esserci ben altro.

Innanzitutto faide personali e tribali decisamente malcelate. Il Southern Transitional Council (Stc) non a caso è stato creato nel maggio 2017 quando il presidente Hadi ha nominato governatore di Aden Abdul Aziz al-Maflahi, invece di riconfermare Aidarous al-Zubaidi che quella carica aveva già ricoperto. Al-Zubaidi – se voleva – poteva portare avanti le istanze del Sud yemenita nelle fila del Southern Separatist Movement meglio noto come al-Hirak che esiste dal 2007 e non ha mai fatto mistero di volere la secessione dello Yemen del Sud, ma che dalla rivolta degli Houthi nel 2014 (finora) ha sempre appoggiato il presidente-fantasma Mansour Hadi nella lotta contro i ribelli del Nord. E invece no, il bellicoso Aidarous si è confezionato il suo strumento di pressione sulla presidenza, il Southern Transitional Council appunto, che fin dai suoi esordi è stato finanziato e armato dagli Emirati arabi uniti. E qui sta il vero punto dolente della partita meridionale in Yemen.

Dallo scorso anno sono stati gli Emirati arabi uniti ad armare, finanziare ed addestrare il Security Belt del Stc, e non più tardi del 29 e del 30 gennaio scorso i loro jet hanno assicurato la copertura aerea ai miliziani di al-Zubaidi che andavano all’assalto del porto e del palazzo presidenziale di Aden in cui i sauditi proteggevano il primo ministro e membri vari del governo. Ma gli Emirati arabi uniti sono comprimari di primo livello dell’Arabia Saudita nel sostenere il presidente Hadi e – si presume – il suo primo ministro Ahmed bin Dagher contro cui si è ribellato il Southern Transitional Council. Che senso ha tutto questo?

Sono in molti a chiederselo, ma la risposta non è semplice. I casi sono due:

1. Sebbene il Stc non abbia ancora detto a chiare lettere cosa voglia (la secessione? Maggiore autonomia per il Sud? La guida del governo? rimandando il tutto ad un referendum da organizzare e di cui non si conoscono ancora i quesiti) si potrebbe essere incrinata l’alleanza di ferro tra Riad e Abu Dhabi – capitale degli Emirati – e gli Emirati potrebbero aver deciso di forzare la mano all’Arabia Saudita per spaccare lo Yemen in due com’era prima della riunificazione del 1990, cosa che l’Arabia Saudita sostiene di non volere, tant’è che dal 28 gennaio non fa che invitare le parti in causa (Hadi e al-Zubaidi) a ritrovare una via negoziale e la pace, come del resto fanno gli Stati Uniti .

2. Arabia Saudita ed Emirati al momento potrebbero stare inscenando un gioco delle parti (cioè fingere una frattura tra di loro) per ottenere o un più diretto controllo di quel nido di serpi che è lo Yemen, o la sua spaccatura, con l’Arabia Saudita a monitorare il Nord in mano agli sciiti Houthi e gli Emirati il Sud e tutte le rotte petrolifere che passano per lo Stretto di Bab el Mandeb. Chi per ora ne approfitta sono al-Qaeda nella penisola arabica e l’Isis perché, con Aden sotto assedio, il 30 gennaio hanno compiuto – l’una o l’altro non si sa – un attentato suicida nella provincia meridionale di Chabwa che è costato la vita a 14 persone.

In tutti i casi le prospettive per lo Yemen si fanno ancora più fosche. Nessuno a livello regionale o internazionale si muove per tentare non tanto di riportare la pace, ma almeno evitare che si moltiplichino i conflitti e le faglie che tormentano il paese. Come nell’Inferno dantesco a girone di dannazione se ne aggiunge sempre un altro: sunniti contro sciiti, sciiti contro sciiti e sunniti contro sunniti, Nord contro Sud e signorie tribali contro signorie tribali in un gioco perverso che sembra non avere fine. Tutto questo mentre lo Yemen o più precisamente tutta l’area dello Stretto di Bab el-Mandeb è diventato strategico per attori internazionali ben lontani dalla penisola arabica, dalla Cina al Giappone che si sono già assicurati basi militari in zona, mentre le stesse potenze mediorientali fanno a gara per acquisirle. L’Arabia Saudita ha già costruito nel 2016 una base militare a Gibuti, gli Emirati e l’Egitto se ne sono assicurate in Eritrea mentre la Turchia ha affittato l’isola di Suakin dal Sudan proprio nel mese di gennaio. A chi interessa che lo Yemen non diventi uno Stato fallito?