In Medio Oriente è stato massacrato un altro dittatore di lungo corso, Ali Abdallah Saleh, presidente dello Yemen dal 1978 al 2012. È successo il 4 dicembre scorso: prima è stata presa di mira la sua abitazione a Sana’a, poi, mentre lui tentava la fuga, è stato colpito a 40 km dalla capitale. Il suo cadavere avvolto in un drappo è stato mostrato dall’emittente dei ribelli Houthi, al-Massirah, ma era difficile riconoscerlo perché il viso era completamente spappolato. Solo il comunicato del Congresso generale del popolo, il partito dell’ex presidente, ha dato al Paese la certezza che il cadavere esibito in tv fosse proprio quello di Saleh. La sua morte, così impietosamente simile a quella di Gheddafi nel 2011, ha segnato l’ennesima svolta drammatica nelle sanguinosissime guerre che stanno martoriando lo Yemen in cui si sta consumando la più grave catastrofe umanitaria a livello pianeta.
Parliamo di guerre perché il conflitto in atto in quella che fu l’Arabia felix è multiplo o polisemico, come dicono i politologi. Dal 2014 i ribelli Houthi, una tribù sciita zaidita originaria del Nord, sono entrati in rotta di collisione col governo di Abd-Rabbo Mansour Hadi sul nuovo modello di Costituzione da dare al Paese dopo l’uscita di scena di Saleh (sciita pure lui), avvenuta nel 2012, a seguito della primavera yemenita, ma solo dopo che l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo (appoggiati in quell’occasione tanto dall’Onu quanto dalla Unione europea) avevano costretto il dittatore a ritirarsi.
Da quel momento Ali Abdallah Saleh, che aveva combattuto gli Houthi in ben sei guerre dal 2004 al 2010 (quando si ribellavano per l’emarginazione politica ed economica in cui erano relegati), si è alleato proprio con gli arci-nemici Houthi per far deragliare il regime del suo successore alla presidenza, Mansour Hadi, sunnita. Il suo appoggio militar-tribale e i depositi di armi che ha messo a disposizione dei ribelli, hanno consentito loro di impadronirsi nel 2014 della capitale Sana’a e di costringere Hadi alla fuga verso Aden nel Sud. A quel punto lo Yemen è diventato l’ennesimo terreno di scontro tra le due potenze del Golfo, l’Arabia Saudita e l’Iran, con Teheran ad appoggiare ed armare gli Houthi e Riad a sostenere il periclitante governo di Hadi; Hadi che negli ultimi tempi non aveva neanche più il coraggio di risiedere ad Aden, per starsene al sicuro nella capitale saudita.
Dal 2015, infatti, una coalizione di paesi arabi guidati dall’Arabia Saudita ha dichiarato una guerra vera e propria agli Houthi e al loro alleato Saleh con la presunzione di poterli sconfiggere e infliggere un duro colpo all’espansionismo dell’Iran nel Golfo. Ma così non è stato. Gli Houthi sono rimasti in sella, mentre lo Yemen è stato distrutto, la popolazione è stata ridotta alla fame, le vittime sono state quasi 9.000, due milioni gli sfollati, mentre il colera infuria nelle principali città. Non paga, l’Arabia Saudita ha chiuso tutte le frontiere di terra, cielo e mare del paese vicino, impedendo che gli aiuti umanitari raggiungessero la popolazione ormai stremata. Solo nell’ultima settimana di novembre era stato finalmente consentito l’arrivo di cibo e medicinali, ma sabato 2 dicembre con uno dei suoi coupes de théâtre o voltafaccia che dir si voglia, Saleh ha ripudiato l’alleanza con gli Houthi per affiancarsi all’Arabia Saudita e «riportare la pace nel Paese».
Da quel momento gli Houthi l’hanno considerato un traditore e a Sana’a è cominciata la caccia all’uomo per farlo fuori, impresa che è loro riuscita il lunedì successivo dopo un week end di sangue tra ribelli e sostenitori dell’ex presidente nella capitale Sana’a. Non bastasse, nella notte tra il 4 e il 5 dicembre l’aviazione saudita ha compiuto decine di raid aerei sullo Yemen, aggiungendo morti ai morti. Da Riad, il 5 dicembre Mansour Hadi via tv ha spronato i suoi connazionali a ribellarsi agli Houthi sempre «per riportare la pace nel Paese».
Ma la pace in Yemen oggi com’è oggi sembra una chimera. Difficilmente i sodali e i leader tribali alleati di Saleh, elevato al rango di «martire», non cercheranno vendetta, anche se la rapidità con cui gli Houthi hanno sbaragliato i miliziani dell’ex presidente per mantenere il controllo di Sana’a fa supporre che non fossero poi così forti e agguerriti. Quale sarà inoltre la prossima mossa dell’Arabia Saudita? Sono in molti a pensare che Riad sia tentata di puntare sul primogenito di Saleh, Ahmed, già capo della Guardia repubblicana, il corpo d’élite dell’esercito yemenita quando il padre era presidente. Il disegno sarebbe quello di nominarlo alla testa del Congresso generale del popolo e farne l’artefice di una pax saudita in Yemen, sempre che sia disposto a collaborare con Mansour Hadi, l’attuale presidente e «burattino» di Riad. Il che non è scontato. Di certo anche l’Arabia Saudita vuole evitare che lo Yemen diventi il suo Vietnam, ma svincolarsi oggi è più difficile di ieri.
Dal canto loro, anche gli Houthi non stanno meglio. In pratica sono rimasti soli contro tutti in patria e sarà arduo affrontare la guerra civile dentro la guerra civile che si è aperta con l’assassinio di Saleh. Certo possono contare sull’appoggio dell’Iran e degli Hezbollah libanesi, ma Iran ed Hezbollah sono disposti a scendere in campo in prima persona nello Yemen e così affrontare direttamente l’Arabia Saudita?
Nei suoi lunghi anni di dittatura Saleh era solito dire che «governare lo Yemen era come ballare sulla testa dei serpenti». Ora che l’uomo che ballava sulla testa dei serpenti è morto, sul terreno restano solo i serpenti.