Il 18 ottobre si apre a Pechino il XIX Congresso del Partito comunista cinese. Un appuntamento di notevole rilievo per capire quale sarà il futuro della Cina sotto la guida del suo sempre più potente leader, il presidente Xi Jinping. Il quale dovrebbe vedere la sua leadership non solo confermata dal Congresso, ma rafforzata, elevando il suo «pensiero» a riferimento del partito e del Paese. In tal caso, solo Mao Zedong avrebbe avuto, nei suoi anni migliori, un potere altrettanto robusto.
Quali sono i termini della partita politica in corso nella seconda potenza mondiale? Anzitutto, Xi ha fatto della campagna anticorruzione il cuore della sua iniziativa, volta a realizzare nei prossimi decenni il «Sogno Cinese», ovvero l’avvento dell’Impero del Centro al rango di massima potenza mondiale. Per questo il Partito va attrezzato intorno alla sua figura, liquidando gli avversari. Forse il Comitato permanente del Politburo sarà ridotto da sette a cinque dirigenti, tutti di provata fedeltà a Xi. Qualche dubbio riguarda la sorte di Wang Qishan, capofila della campagna anticorruzione, il quale in teoria dovrebbe ritirarsi per raggiunti limiti di età, ma potrebbe essere confermato da Xi. Il suo recente incontro con Steve Bannon sembrerebbe confermare che Wang resterà un uomo di punta anche nel secondo (ultimo?) quinquennato di Xi.
Sotto questo profilo, è interessante osservare come il presidente abbia provveduto a costruirsi delle Forze armate a sua misura. Un’epurazione di notevole spessore ha messo fuori gioco i quadri di vertice più infidi. Ad esempio, gli ex vice presidenti della Commissione Militare Centrale – ovvero il sancta santorum del potere – come Guo Boxiong e Xu Caihou. Si consideri poi che nove delegati militari su dieci al Congresso sono di prima elezione, e altri saranno messi da parte per raggiunti limiti d’età. In termini strategici, la riforma dell’Esercito Popolare di Liberazione mira alla creazione di una forza più snella e flessibile, abbandonando il modello di derivazione sovietica vigente fino a pochi anni fa.
Più in generale, nell’equilibrio della potenza interna al regime cinese questo Congresso dovrebbe quindi sancire l’egemonia del partito sui militari, per evitare rischi di crisi e di contrapposizioni che potrebbero mettere in questione le gerarchie vigenti.
La Cina deve dotarsi inoltre di uno strumento militare all’altezza della sua performance economica, in modo da assurgere a potenza a tutto tondo. Secondo gli analisti del Pentagono, ci vorranno almeno vent’anni prima che le Forze armate cinesi possano impensierire la strapotente prevalenza dello strumento militare a stelle e strisce e fare così della Cina il nuovo Numero Uno planetario.
Un secondo fondamentale fronte riguarda le privatizzazioni dei grandi conglomerati industriali. Metà dell’economia cinese è ancora in mano pubblica. O meglio, di una nomenklatura famelica e corrotta, che finisce per frenare lo sviluppo dell’economia e di conseguenza la legittimità del potere, che si regge sulla fenomenale crescita in atto ormai da oltre trent’anni. Xi Jinping appare deciso a procedere verso le privatizzazioni, conscio che su questo si gioca tutto. Le resistenze sono infatti fortissime, tanto da alimentare voci su presunti attentati al capo supremo, colpevole di attaccare rendite accumulate nei decenni da vari capibastone a livello regionale e centrale.
Sullo sfondo di queste battaglie intestine spicca la crisi nordcoreana. La Cina è preoccupata che la sfida retorica fra Donald Trump e Kim Jong-un possa slittare fuori controllo. Uno scontro armato fra Stati Uniti e Corea del Nord sarebbe catastrofico per Pechino. In caso di liquidazione del regime di Pyongyang, la Cina dovrebbe affrontare contemporaneamente tre emergenze: quella umanitaria, con milioni di profughi in fuga dal «regno eremita» verso il territorio cinese; quella militare, con il rischio di essere coinvolti in uno scontro diretto con gli Usa; quella geopolitica, perché in caso di vittoria americana e di riunificazione della Corea in una nazione di fatto satellite degli Stati Uniti le truppe a stelle e strisce si schiererebbero alla frontiera con la Repubblica Popolare.
È per evitare questo scenario da incubo che Xi Jinping sta cercando di favorire un compromesso diplomatico fra Washington e Pyongyang, anche esercitando pressioni politiche ed economiche mai viste prima sul governo nordcoreano. Ma senza spingerlo verso il collasso, perché questo significherebbe appunto confinare con gli Stati Uniti.
In questa acrobatica partita diplomatico-geopolitica Xi si gioca molto del suo prestigio anche interno. Se si dovesse riaprire la guerra di Corea, dopo una tregua di oltre sessant’anni, sia gli equilibri geopolitici in Asia-Pacifico che i rapporti di forza fra le diverse fazioni cinesi ne sarebbero sconvolti, con esiti imprevedibili.