Xi Jinping, l’ambizioso e autoritario presidente della Repubblica Popolare Cinese, sta diventando un secondo Mao (in primo piano nella foto), dotato di poteri semidivini? Oppure il suo tentativo di imporre se stesso al centro assoluto del sistema, liquidando o mettendo in ombra rivali e contraddittori in nome dell’unità del partito, provocherà una seria crisi politica? Dopo la recente seduta del Plenum del Comitato Centrale del Partito comunista cinese – un organismo di circa 200 persone che si riunisce in segreto – la questione è più aperta.
Di certo la strategia di Xi, nella (scarsa) misura in cui è leggibile, punta a riformare radicalmente la Cina. Il cuore della questione sono le imprese di Stato, che rappresentano ancora una quota decisiva dell’economia cinese. E che soprattutto incarnano il controllo dell’élite politica sul sistema produttivo: le imprese «pubbliche» sono di fatto in mano privata, controllate più o meno direttamente da alcuni dei più influenti leader nazionali o da loro parenti e prestanome. Questo intreccio non ha solo conseguenze perverse sul fronte economico, ma rende più opaco il sistema politico, nel quale la ripartizione fra interessi nazionali e interessi privati di capi e capetti è tutt’altro che definita.
Xi insiste da sempre e con sempre maggior insistenza sulla lotta alla corruzione, fenomeno direttamente connesso alla proprietà «privata» delle imprese «pubbliche». Per questo insiste sull’urgenza di vere privatizzazioni, da determinare entro (limitate e controllate) regole di mercato. Anche perché solo così potrà essere battuto non solo l’intreccio fra gli interessi personali dei dirigenti comunisti e le necessità di sviluppo dell’economia cinese, che da tempo ha rallentato la sua fenomenale spinta propulsiva. Fra le misure proposte, anche l’obbligatorietà della dichiarazione dei redditi per tutti i dirigenti, misura che se attuata avrebbe il sapore di una rivoluzione.
L’asprezza dello scontro è senza precedenti nella recente storia della Cina. I capi minacciati nel loro potere e nelle loro risorse resistono vigorosamente. Ma Xi sembra deciso a rischiare tutto pur di far passare le riforme economiche e la «pulizia» all’interno del Partito. Alcuni casi lo confermano. In agosto, per esempio, è stato arrestato un generale di alto profilo, Wang Jianping, vice capo di dipartimento nella Commissione centrale militare, uno degli organismi decisivi nella distribuzione del potere interno alla Repubblica Popolare. L’accusa, come sempre in questi casi, è di avere infranto la disciplina di partito, sinonimo per corruzione.
Un’altra direttrice del riformismo autoritario di Xi è quella relativa alle Forze armate. Il personale dovrebbe essere ridotto del 15 per cento, ovvero trecentomila unità. Obiettivo: disporre di uno strumento militare più snello e flessibile. Ma non si tratta solo di una questione tecnica. L’Esercito popolare ha tuttora influenza e prestigio tali da poter intralciare la strategia di Xi. Il quale sa bene che senza il controllo dell’intelligence e delle Forze armate ogni suo sforzo sarà vano.
Nel 2017 è previsto il nuovo Congresso nazionale del Partito comunista: verifica di mezzo termine della presidenza Xi. È probabile che il capo intenda ottenere dal Congresso non solo la riconferma, apparentemente scontata, ma soprattutto un’opzione per restare in sella anche oltre la scadenza del suo mandato, nel 2022. Xi ne avrebbe bisogno per portare a compimento i suoi radicali progetti di riforma. Ma per questo deve essere certo che nessuno nel Politburo e nel Comitato centrale sia in grado di rivoltarsi contro di lui.
Il destino delle riforme di Xi e la sua stessa permanenza al potere derivano peraltro non solo dalle dispute intestine, a loro volta condizionate dall’andamento economico e dal clima sociale, ma anche dalla politica estera. Qui il leader si è molto esposto sul fronte dei Mari Cinesi. In gioco non solo e non tanto l’accesso alle risorse minerarie contenute nelle zone economiche disputate fra Pechino e tutti i suoi vicini, a cominciare dal maggiore, il Giappone. C’è molto di più: la faccia. Esasperando il tono della disputa, che Pechino vede soprattutto come un tentativo americano di accerchiarla facendo leva sui suoi alleati o amici sinofobi dell’area (Giappone, Vietnam, Corea del Sud), Xi Jinping si è molto esposto anche sul fronte interno.
Non si possono eccitare le corde nazionalistiche in Cina senza esserne condizionati. Se dovesse apparire troppo molle e disponibile al compromesso nella determinazione dei confini marittimi nel Mar Cinese Orientale e soprattutto in quello Meridionale, il presidente rischierebbe di suscitare violente manifestazioni di piazza, di forte intonazione nazionalistica. Su cui potrebbero far leva i suoi oppositori interni alla dirigenza del partito, che attendono solo l’occasione buona per rovesciarlo o almeno tagliare le unghie alle sue ambizioni.
Sotto questo profilo, sarà interessante osservare l’approccio del nuovo presidente degli Stati Uniti alla Cina. Se fosse piuttosto duro – come Hillary promette di essere – Xi ne trarrebbe la conclusione di non potersi sottrarre a un braccio di ferro con Washington pur di evitare di essere soffocato dal containment a stelle e strisce. Il clima attuale, negli apparati americani, inclina comunque in questa direzione. Alimentando dinamiche che possono finire fuori controllo, tanto sulla sponda americana che su quella cinese.