Xi Jinping, l’«uomo forte» cinese, è a un passo dal raggiungere l’obiettivo che ha perseguito da quando, molti anni fa, ha cominciato la sua scalata al potere assoluto.
Dal 2012 Xi ricopre le tre cariche più importanti della Cina, quelle di segretario del Partito Comunista Cinese, presidente della Repubblica Popolare e capo delle forze armate. Per evitare il concentramento del potere nelle mani di un solo uomo, fu introdotta poco dopo la morte di Mao Zedong, fondatore della Cina comunista, una regola secondo la quale quelle tre cariche possono essere assegnate alla stessa persona solo per due mandati consecutivi di cinque anni ciascuno. L’esistenza di questo limite è stata considerata da sinologi, imprenditori e politici stranieri la prova che la Cina era avviata a diventare un paese relativamente libero, a procedere gradualmente ma senza tentennamenti sulla strada della legalità e della modernità, un paese pronto a uscire dall’isolamento e a prendere il posto che gli spetta nella comunità internazionale.
Ora il Comitato Centrale ha proposto che il limite dei due mandati quinquennali venga abolito. Per dirla con il «Global Times», il quotidiano che esprime le opinioni dell’ala dura e nazionalista del partito, «la proposta comprende l’aggiunta alla Costituzione del Pensiero di Xi Jinping sul Socialismo con Caratterische Cinesi per una Nuova Era e la rimozione dell’espressione di limiti temporali per il presidente e il vice-presidente del paese». Guarda caso, il giornale ha affidato la spiegazione di questa «proposta» a Su Wei, un intellettuale che nel recente passato è stato tra gli entusiasti sostenitori di un altro aspirante uomo forte, Bo Xilai, che oggi è in prigione dopo aver perso la lotta per il potere che aveva ingaggiato proprio con Xi Jinping. «In particolare nel periodo dal 2020 al 2035, che è un periodo cruciale per la realizzazione della modernizzazione socialista – afferma Su – la Cina e il partito hanno bisogno di una leadership stabile, forte e coerente». In altre parole povere: Xi rimarrà al potere per un periodo indefinito, probabilmente a vita. Oggi ha 64 anni.
La «proposta» del CC deve essere approvata nelle prossime settimane dall’Assemblea Nazionale del Popolo, il Parlamento «con caratteristiche cinesi» che non ha altro ruolo che quello di ufficializzare le decisioni del CC: nessun dubbio sul fatto che la confermerà.
Secondo il ragionamento dei numerosi «amici» di Xi, la Cina ha conosciuto il suo miracolo economico dopo che Deng Xiaoping aveva smantellato i centri del potere maoista. Il gruppo dirigente ha quindi deciso che era necessaria una dirigenza collettiva che impedisse l’accentramento del potere nelle mani di un solo uomo. Dopo Mao, Deng. Dopo Deng, Jiang Zemin. Dopo Jiang, Hu Jintao. Ogni successivo leader aveva meno potere del precedente e la permanenza della leadership collettiva avrebbe dovuto essere assicurata dalla norma che stabiliva il limite dei due mandati quinquennali per il leader supremo, una figura della quale non sembra possibile fare a meno in Cina e in altre culture asiatiche.
Jerome Cohen, lo studioso americano considerato il massimo esperto vivente del sistema legale cinese, ha così commentato: «(la proposta del CC) significa che il Partito Comunista Cinese ha dimenticato la lezione del lungo dispotismo di Mao». «Questo ci spinge a pensare a Chiang Kai-shek (il «generalissimo» che, sconfitto dai comunisti, instaurò una feroce dittatura a Taiwan), a Yuan Shikai (il generale che da repubblicano si trasformò in aspirante imperatore dopo la sconfitta dell’ultima dinastia) o, prendendo in considerazione altri paesi asiatici, al dittatore filippino Ferdinand Marcos e al sudcoreano Park Chung-hee. Certamente, alcuni hanno sottolineato che l’esempio di Vladimir Putin potrebbe avere fortemente influenzato Xi ».
Secondo Cohen la riforma creerà «brontolii e preoccupazioni» nell’élite cinese e tra gli intellettuali, «specialmente perché nello stesso gruppo di “proposte” del CC con le quali è stato eliminato il limite ai mandati è stata confermata la creazione della National Supervisory Commission», una sorta di super-governo, che renderà il regime più repressivo e più libero da obblighi legali che mai, imponendo quella che equivale ad una «inquisizione con caratteristiche cinesi».
Gordon G. Chang, uno studioso molto critico verso Pechino, ha ricordato che dalla Cina, tra il 2015 e il 2017, non solo sono stati esportati capitali per oltre due trilioni di dollari ma che «ricerca dopo ricerca, alcune condotte da organismi statali cinesi, risulta che circa la metà dei ricchi ha programmato di emigrare nei prossimi cinque anni».
Nella sua «lotta alla corruzione», un’etichetta che appare sempre più come la copertura di purghe in stile staliniano, Xi ha colpito 1,5 milioni di funzionari, a tutti i livelli del partito/stato. Il recente arresto di Wu Xiaohui, fondatore della conglomerata Anbang, proprietaria tra l’altro del Waldorf Astoria di New York e oggetto dei desideri di Jared Kushner, il rampante genero del presidente americano Donald Trump, indica che Xi non si ferma davanti agli intoccabili dei decenni passati e che nessuno si può sentire al sicuro – una tattica che ancora una volta non può non ricordare Josif Stalin. Wu è infatti sposato con una nipote di Deng Xiaoping. Altre imprese facenti capo a parenti e/o alleati di Deng e dell’ex-primo ministro Wen Jiabao, sono finite nel mirino dell’uomo forte: la Wanda Dalian, la HNA, la Ping An, ecc.
Difficile dire dove sia finita l’ala veramente riformista del PCC, quella che fin dal 1989, dopo il massacro di studenti e cittadini di piazza Tienanmen, ha cercato di portare gradualmente la Cina verso la supremazia della legge e, se non proprio verso la democrazia, certamente verso una società nella quale dovrebbero avere diritto di cittadinanza la libertà di opinione e di parola. Di questa ala del partito – che certamente esiste e conta un alto numero di aderenti, a tutti i livelli – non si sente parlare almeno dal 2008, quando i supposti riformisti Hu Jintao (allora segretario del PCC e presidente della Repubblica) e Wen Jiabao (allora primo ministro e «uomo immagine» del Paese) hanno iniziato la marcia verso il ritorno all’assolutismo che oggi viene coronata da Xi Jinping.
La determinazione di Xi è pericolosa anche e forse soprattutto sul piano internazionale, e in particolare su quello regionale. Intellettuali e militari «vicini» a Xi – gli unici dei quali oggi è possibile sentire le opinioni – hanno indicato che un attacco militare a Taiwan è possibile nei prossimi anni. L’ isola si è oggi trasformata in una vibrante democrazia nella quale la maggioranza dei cittadini non ha alcun interesse a «riunificarsi» (in realtà Taiwan è stata parte della Cina solo in periodi brevissimi e lontani nel tempo) con la «madrepatrtia» retta da una dittatura non dissimile da quella che fu esercita su di loro da Chiang Kai-shek fino a pochi decenni fa.
Altri possibili punti di conflitto sono il Mar della Cina meridionale – che Pechino ha militarizzato negli anni scorsi ignorando le proteste degli altri paesi rivieraschi – e le dispute territoriali con l’India, una potenza storicamente e oggettivamente rivale che è entrata a far parte del Quadrilateral o Quad – cioè l’alleanza economica e militare tra Usa, Giappone, India e Australia che riunisce la democrazie che si affacciano sul Pacifico e che è una delle principali iniziative di politica internazionale del presidente Trump.