Washington e Pechino contro Big tech

Dalla nomina di Lisa Khan alla tassa minima globale: giganti digitali sotto pressione negli Usa. Intanto Bezos fa un passo indietro e Xi se la prende con la versione cinese di Uber
/ 12.07.2021
di Federico Rampini

Grandi cambiamenti incombono sull’economia digitale nel mondo intero. Vittima del suo stesso successo, avendo incassato profitti stratosferici durante la pandemia, ora si attira le ire dei Governi da Washington a Pechino. Dalla nomina di una giovanissima e molto aggressiva giurista (Lisa Khan, 32 anni) come capa dell’antitrust americano, fino alla global minimum tax, l’idillio fra democratici Usa e Big tech sembra in crisi. Mentre a Pechino prosegue implacabile l’offensiva di Xi Jinping contro i suoi miliardari del digitale. Dopo avere usato il pugno duro contro Alibaba, l’equivalente cinese di Amazon (ma ancora più grossa) ora Xi se la prende con Didi, la gemella cinese di Uber, sabotandone il collocamento in Borsa.

Il sovrano dell’Impero digitale d’Occidente ci ha lasciati la settimana scorsa. Il ritiro di Jeff Bezos era un evento annunciato ma coincide con i primi rovesci della sua storia imprenditoriale: il sì di principio a una tassa minima globale e la nomina di una giurista molto aggressiva alla testa dell’antitrust, due svolte che portano la firma di Joe Biden. Per l’uomo che ha rivoluzionato la nostra vita quotidiana ed è balzato ai vertici del capitalismo mondiale non è un’uscita di scena totale. Pur lasciando la carica di amministratore delegato di Amazon, si tiene quella di presidente. Il passo indietro di Bezos simbolicamente chiude un’era: l’ascesa trionfale della regina del commercio online, dalla vendita di libri alla vendita di quasi tutto, ha coinciso con la storia di questo personaggio geniale e controverso. Bezos se ne va – come i campioni più astuti – dopo avere assaporato l’ultimo dei suoi trionfi: il 2020 grazie ai lockdown ha segnato un’apoteosi per Amazon, il cui titolo in Borsa in quei dodici mesi tremendi è cresciuto del 70%.

Senza indulgere nelle teorie del complotto, i numeri sono così strabilianti che Big tech sembra quasi avere anticipato il Coronavirus: è come se la tragedia della pandemia fosse stata prevista vent’anni prima da chi aveva progettato un universo di consumi fatto per ordinare tutto sullo schermo, evitando le piazze e i centri commerciali (idem per lo smartworking e il videostreaming). Eppure agli esordi pochissimi avevano creduto in lui. Bezos traversò l’America dalla East Coast fino a Seattle sulla costa settentrionale del Pacifico, per pagare meno tasse possibile e pescare talenti in una città «allevata» da Microsoft nell’era di Bill Gates. La mania di eludere le imposte è un peccato originale che segna la storia della sua azienda, tuttora inseguita da diversi Governi per le macchinazioni anti-fisco. Con il senno di poi Bezos teorizza che cominciò vendendo libri perché questo business gli consentiva di catturare il massimo d’informazioni sui gusti dei clienti. Si allargò ai Cd, alla musica, ai prodotti elettronici, e poi progressivamente a quasi tutto ciò che si può voler comprare.

Per molti anni non fece profitti, tuttora non ama distribuire dividendi: il teorema Bezos era proiettato verso la conquista di una posizione di mercato dominante. Ha fatto incursioni nel mondo della grande distribuzione tradizionale, comprando i supermercati alimentari «salutisti» della catena Whole foods. Ha inventato l’assistente digitale Alexa. Ha avuto contrasti accesi con Donald Trump, di cui Amazon ha censurato i seguaci facendo scomparire il social media di destra Parler. È diventato una potenza della Tv e del cinema. Al termine di quei 12 mesi folli in cui la maggioranza degli americani soffriva per la pandemia e lui diventava sempre più ricco, Bezos ha creato anche 500 mila nuovi posti di lavoro. Ha coronato il suo trionfo economico aggiungendoci una vittoria politica: nella primavera del 2021 non è passato il referendum per ammettere il sindacato dentro uno stabilimento di distribuzione Amazon in Alabama. Finora nessuna sede Amazon ha organizzazioni sindacali al proprio interno. Ironia della sorte, Bezos passa per essere un pilastro dell’establishment progressista: come editore del «Washington Post» ha sostenuto l’opposizione contro Trump.Di recente si è scoperto ambientalista e ha creato un fondo di 10 miliardi per la lotta al cambiamento climatico.

In futuro però si delinea all’orizzonte una sconfitta politico-economica targata Biden. L’elusione fiscale di Amazon, e delle sue consorelle come Apple, è all’origine della spinta verso una global minimum tax, da aggiungersi alla digital tax. L’accordo al G7 e al G20, più la nomina della giovane Lisa Khan alla testa dell’antitrust, una giurista nota per essere un «falco», potrebbero aprire nella storia di Amazon un nuovo capitolo meno ricco di successi. Forse Biden riuscirà a spezzare il connubio tra i Bezos e la sinistra americana, nel qual caso il percorso dei giganti digitali si farebbe più accidentato in futuro.

Da parte sua Xi Jinping sta sabotando le aziende tecnologiche cinesi che si quotano in Borsa a Wall Street. Cominciò con Ant (braccio finanziario del gruppo Alibaba) e ora se la prende con Didi, l’equivalente cinese di Uber. Finora l’unico settore che era passato indenne attraverso le tensioni tra Washington e Pechino era la Borsa. Anche su quel fronte si chiude un’era? Dal 2012 le società cinesi che si sono collocate in Borsa scegliendo i listini americani vi hanno raccolto più di 75 miliardi di dollari. Solo dall’inizio del 2021 ben 36 matricole cinesi si sono collocate per la prima volta in Borsa, sempre scegliendo un listino azionario americano. La progressione è evidente perché nei primi sei mesi di quest’anno si sono registrati altrettanti nuovi collocamenti che in tutto il 2020. La vendita di azioni di Didi per 4,4 miliardi di dollari era il secondo maggiore collocamento di una società cinese in America dopo quello di Alibaba nel 2014 che raccolse 25 miliardi.

Ma il Governo di Pechino è intervenuto contro Didi con un agguato dell’ultima ora che ricorda quello ai danni di Ant, la filiale finanziaria di Alibaba. L’authority cinese che regola il cyberspazio ha improvvisamente ordinato a tutti gli app-store – i negozi digitali da cui compriamo e scarichiamo le app – di sospendere il servizio Didi. La reazione della Borsa è stata immediata, il titolo della neo-quotata ha perso il 20%. L’authority cinese sostiene che la concorrente locale di Uber avrebbe raccolto dati personali sui clienti in violazione delle leggi sulla privacy. L’altolà a Didi rientra comunque in una offensiva molto più vasta. Il Governo di Xi Jinping ha di recente rilevato un insieme di nuove direttive per regolare e frenare «i flussi di dati oltre confine e la fuoriuscita di altre informazioni confidenziali», sempre in nome della «sicurezza». Il documento governativo descrive un «paesaggio economico e finanziario» segnato da una crescente violazione delle regole, donde la necessità di controlli più stringenti. L’offensiva di Pechino contro Big tech è ambivalente. Da un lato è un’operazione politica con cui Xi vuol far vedere ai suoi capitalisti chi comanda davvero. D’altro lato però è anche «la via cinese all’antitrust» e in questo le due superpotenze rivali stanno muovendosi nella stessa direzione.