«Il regime ha eliminato ogni forma di opposizione credibile e tutti i potenziali candidati pericolosi per Al Sisi sono stati brutalmente costretti a ritirarsi dalla corsa». Nathan J. Brown, analista del Carnegie Endowment e professore alla George Washington University, commenta secco l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali egiziane del prossimo 26-28 marzo: «Il regime voleva che si presentasse un candidato debole, che raccogliesse solo una manciata di voti per legittimare le elezioni». Ed è proprio quello che è successo. L’unico sfidante di Al Sisi è un perfetto sconosciuto: Moussa Moustafa Moussa, parlamentare del partito filo-governativo El Ghad, che a metà gennaio si era pubblicamente espresso in favore della candidatura di Al Sisi . Il 29 gennaio, però, a 15 minuti scarsi dalla scadenza ufficiale per la deposizione delle candidature, quando Al Sisi era ancora l’unico candidato in corsa, Moussa si è fiondato in fretta e furia a depositare i suoi documenti all’Autorità Nazionale per le Elezioni. Così 2 febbraio è ufficialmente iniziata la campagna presidenziale 2018.
«Ci sono due processi in corso in Egitto al momento», spiega Brown: «Il primo, è che il principale impulso di questo regime è di eliminare la politica dalla vita del Paese». L’apparato ha dunque voluto una campagna presidenziale debole, per mantenere la formalità elettorale, ma svuotandola di significato. Il secondo motivo, dice l’analista, «è che sebbene Sisi sia in una posizione forte, la lotta si gioca all’interno dell’apparato militare e securitario, dove non sono tutti entusiasti dell’attuale presidente».
Non è un caso per che i candidati esclusi a forza dalla corsa presidenziale avessero quasi tutti un trascorso nell’establishment. Ahmed Shafiq, ex-generale dell’aviazione, è stato prelevato dalla sua casa di Abu Dhabi per essere deportato al Cairo, dove è stato «trattenuto» in un hotel per diversi giorni senza possibilità di comunicare con l’esterno. Il 7 gennaio si è ufficialmente ritirato dalla corsa elettorale. Sami Anan, ex-Capo di Stato Maggiore, è stato arrestato e processato da un tribunale militare per essersi candidato contro Al Sisi, a cui imputava strategie di governo difettose che avrebbero sovraccaricato di responsabilità le forze armate e indebolito il settore civile. Il Colonnello Ahmed Konsowa, condannato lo scorso dicembre, dovrà scontare 6 anni in un carcere militare. Persino il nipote dell’ex-presidente Sadat, Mohamad Anwar Sadat, vicino all’intelligence egiziana, è stato escluso dalla corsa. «Erano tutti candidati che costituivano una minaccia proveniente dall’interno dell’apparato statale».
Questo, secondo Brown, evidenzia come ci siano diverse fazioni che competono all’interno del regime militare egiziano. Un elemento importante che contraddistingue Abdel Fattah Al Sisi e che spesso viene dimenticato, sottolinea Brown, è che escluso Mohammed Morsi dei Fratelli Musulmani, l’Egitto ha avuto presidenti che «pur facendo parte dell’apparato militare, avevano tutti una propria indipendenza politica». Nasser e Sadat hanno avuto un trascorso politico prima di entrare nell’esercito e persino Mubarak ha ricoperto la carica di vice-presidente prima di diventare capo di Stato. «Per Abdel Fattah Al Sisi il percorso è diverso», dice l’analista, perché è entrato nei militari quando era ancora adolescente, ha servito nell’esercito tutta la sua vita e ha chiesto il permesso dell’establishment militare prima di candidarsi alla presidenza. È sempre stato ed è ancora parte integrante dell’esercito e questo lo pone in una posizione difficile.
Perché? I militari in Egitto sono la più grande industria del Paese che detiene almeno il 40% del Pil, e l’attuale presidente egiziano è stato a capo dell’esercito solo dal 2012 al 2014. «È chiaro che Al Sisi non abbia avuto abbastanza tempo per stabilire il proprio dominio e controllare per intero l’apparato militare». C’è poi un altro elemento da considerare, dice Brown: quando l’ex-Federmaresciallo ha deciso di correre alla presidenza i militari sono diventati parte effettiva dell’apparato statale. «Così facendo l’esercito si è esposto politicamente e da istituzione apolitica qual era, è diventato il centro nevralgico del regime». Questo significa che ogni fallimento delle politiche pubbliche del governo, gli incidenti ferroviari o le riforme economiche non riuscite, ricadono per intero sulle spalle dei militari. «È più che normale che alcuni ufficiali indipendenti siano preoccupati dell’andamento del regime», dice l’analista, e a maggior ragione a fronte di un’inflazione montante, accompagnata da politiche di taglio dei sussidi a gas ed elettricità richiesti dal Fondo Monetario Internazionale.
A metà 2013, l’ex-presidente Mohammed Morsi era stato fortemente criticato per la forte stagnazione economica, fino alle proteste di piazza che avevano poi aperto la via alla sua deposizione. Allora a 1 euro corrispondevano 9 Lire Egiziane; oggi ne corrispondono 21,8 LE. A questo si aggiungono i burrascosi rapporti con l’Arabia Saudita, che dal 2013 ha iniettato 25 miliardi di dollari nell’economia egiziana, aggiudicandosi il titolo di maggior finanziatore dell’Egitto post-Morsi. Riyadh però non ha ricevuto in cambio la contropartita che si aspettava dal Cairo, cioè le due isole contese del Mar Rosso, Tiran e Sanafir, né un coinvolgimento militare egiziano a fianco dei sauditi in Yemen. Non è perciò scontato che, nonostante le pressioni statunitensi, in futuro l’Arabia Saudita non decida di ridurre i suoi investimenti. «Questo si traduce in una pressione politica per il governo, che gli arriva anche dai suoi sostenitori», tira le somme Brown: la crisi economica ha raggiunto anche le tasche delle classi più abbienti e non dà segni di miglioramento.
Un ulteriore banco di prova del regime sono le operazioni di contro-terrorismo in Nord Sinai, continua Brown, dove da cinque anni a questa parte si susseguono operazioni contro l’insorgenza islamista che nel frattempo si è ri-denominata Wilayat Sina (ISIS in Sinai). Bombardamenti massicci, forze speciali e fanteria dispiegati sul terreno non sono però serviti a sradicare i gruppi jihadisti. Anzi, gli attentati si sono moltiplicati su tutto il territorio egiziano. In compenso, sono morti centinaia di civili, si contano migliaia di sfollati e le poche immagini che escono dal campo di battaglia mostrano macerie e muri di case diroccate ridotti a colabrodo. A fronte di tutto ciò la strategia in Nord Sinai rimane la stessa. Il 9 febbraio, a una settimana dall’inizio della campagna elettorale, il governo ha rilanciato l’Operazione Sinai 2018: bombardamenti a tappeto massicci con l’utilizzo comprovato di bombe a grappolo. Wilayat Sina intanto ha già risposto alle operazioni, rilasciando un video intitolato «i Protettori della Sharia» in cui minaccia attentati nelle giornate elettorali.
«Le repressioni feroci e violente di questi anni hanno lasciato profonde cicatrici nel tessuto sociale e politico di tutto l’Egitto», anche se politicamente il regime sembra aver ottenuto un successo: lo smantellamento dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani. La domanda che Brown si pone, è se una parte dei Fratelli sarà in grado di raccogliere i cocci e formare un movimento, seppur più piccolo, in grado di rientrare nella vita politica del Paese. «Ci sono persone nel regime che stanno valutando se permettere la rinascita di un’opposizione con cui si possa dialogare, invece di avere un’insorgenza armata in Sinai e nel resto del Paese». Per il momento però non è un’eventualità che Al Sisi sembra voler considerare. Al contrario, ogni piattaforma politica di opposizione civile viene prontamente repressa: che sia laica, come il movimento che ha sostenuto la candidatura dell’avvocato Khaled Ali, ritiratosi dalla «farsa elettorale», o che sia islamo-liberale, come il partito di Moneim Aboul Fotouh, ex-Fratello Musulmano, arrestato lo scorso 14 febbraio con l’accusa di spargere notizie false contro Al Sisi e di far parte della Fratellanza.
«Non credo che ci saranno cambiamenti drammatici nel regime nei prossimi anni», dice Brown, che però specifica: «Il malcontento in Egitto è reale e diffuso». L’analista è convinto che nel lungo periodo l’instabilità del Paese potrebbe scoppiare in maniera più violenta e caotica: «Negli sconvolgimenti del 2011 c’erano forze politiche ben identificate, in grado di giocare nell’arena politica, in particolare i fratelli Musulmani». Ora, dice, «quello che abbiamo è uno scontento afono, senza voci rilevanti che possano articolare un’agenda politica o negoziare per le diverse circoscrizioni elettorali». E le conseguenze, conclude, sono da temere.