Poco si capisce delle convulsioni geopolitiche che papa Francesco ha felicemente battezzato «guerra mondiale a pezzi» senza considerarne il fattore scatenante. Questo consiste nella profonda crisi di identità degli Stati Uniti d’America e nelle conseguenze che provoca su scala planetaria. Siamo stati abituati a vivere dopo la Seconda guerra mondiale in una sorta di impero americano, tanto informale quanto effettivo. Certamente benedetto da chi aveva la fortuna di esserne parte. Sistema prima in cogestione asimmetrica con l’impero sovietico, poi disperatamente solo, dal 1992. È da questa solitudine, e dai riflessi che comporta, che nasce la crisi americana. E da essa l’inevitabile disintegrazione di quell’ordine globale che pareva essersi consolidato dopo le due guerre mondiali.
L’impossibilità di reggere il mondo da un punto solo, insieme all’irrinunciabilità del principio universalistico della Repubblica imperiale a stelle e strisce, ha compromesso la capacità americana di gestire i conflitti che si espandono nel mondo. Lo si vede molto chiaramente nella crisi dell’Alleanza atlantica. Concepita per contenere l’impero sovietico e legittimare l’egemonia americana sull’Europa, questa struttura militare a guida americana è ormai fatiscente. Sopravvive a sé stessa, senza uno scopo e un modo di esistere condivisi da chi ne fa parte. La NATO senza guida americana non ha senso. È questo che noi oggi dobbiamo constatare. Gli americani non hanno più né il tempo né la voglia di portare a fattor comune i diversi soggetti della comunità atlantica. Da un punto di vista strettamente militare, poi, la NATO si è dimostrata quanto meno inefficace. Alla prova della guerra di Jugoslavia, prima, nella guerra di Ucraina, oggi.
Nel decennio delle guerre di successione jugoslava, quando alcuni europei privi di senso dell’umorismo annunciavano «l’ora dell’Europa» (Jacques Poos, ministro degli Esteri lussemburghese), il tentativo di affidare ai Paesi europei della NATO la gestione delle turbolenze balcaniche si rivelò fallimentare. Quell’esperienza portò poi, dopo l’11 settembre, l’America a stabilire – secondo il famoso detto del ministro della Difesa Rumsfeld – il postulato per cui non è la coalizione che stabilisce la missione ma l’opposto. Modo di definire la libertà di scelta americana dei partner atlantici servibili, e per conseguenza degli inutili. Fra i primi, restano permanentemente convocati i britannici, i francesi (quando vogliono) e alcuni altri scelti per l’occasione.
Oggi l’unica NATO che, oltre all’Inghilterra, interessa agli americani è quella del Nord-Est europeo. In primo luogo la Polonia, presto anche i Paesi scandinavi in entrata (Svezia e Finlandia) e, più indietro, la Romania. Questa selezionata compagnia ha il compito di presidiare la frontiera con l’impero russo in velleità espansiva. Il resto della NATO, fra cui le gloriose potenze occidentali o sedicenti tali (Francia, Germania e Italia) sono considerate, se non proprio inutili, quanto meno inadatte al contrasto sia della Russia che della penetrazione cinese in Europa.
Lo stesso vale, oggi, per il teatro prioritario dal punto di vista di Washington, ovvero l’Indo-Pacifico. Qui l’America convoca, in posizione comunque secondaria, solo Regno Unito e Francia. Il primo per storica affidabilità, la seconda in quanto potenza del Pacifico. Ma si tratta di appendici di un sistema lasco di intese incentrato sul cosiddetto Quad: India, Giappone e Australia ad affiancare l’America. In parole povere, a qualunque crisi ci si voglia riferire, Washington tende a esporsi il meno possibile e a concentrarsi solamente sulle missioni principali. Su tutto, il contenimento della Cina. Se ne accorgeranno probabilmente presto – ammesso che non l’abbiano già fatto – anche gli ucraini, cui difficilmente l’attuale amministrazione continuerà a garantire il supporto finora assicurato, decisivo per la loro resistenza all’aggressione russa.
La conseguenza di questa ritrosia americana è la crescente entropia nei rapporti internazionali. Il rischio che la guerra mondiale a pezzi diventi effettiva e globale è insito nello scadimento dell’ordine internazionale. Questo implica infatti l’emersione di potenze regionali più o meno velleitarie, come il Giappone e l’India in Asia, la Polonia e la Turchia in Europa, le quali possono certamente scatenare crisi nei rispettivi «esteri vicini» ma altrettanto certamente non sono in grado di gestirle. Quasi automaticamente si rivolgeranno a Washington, che farà finta di non sentire. C’è un’alternativa visibile a tale entropia? Parrebbe proprio di no. A meno di non considerare la Cina come una effettiva alternativa all’egemonia americana. Per quanto Washington dipinga Pechino come minaccia strategica, siamo ancora molto lontani dal poter immaginare un mondo cinese.