La campagna elettorale americana ora si prolunga fino al 5 gennaio. Quel giorno si ri-vota in Georgia per assegnare due seggi al Senato. È l’ultima, tenua chance di Joe Biden di avere una maggioranza al Congresso, altrimenti la sua capacità di governare sarà molto limitata. Questo spiega perché quasi tutti i repubblicani fanno quadrato attorno a Donald Trump, difendono l’indifendibile, si rifiutano di riconoscere la vittoria di Biden e avallano la guerriglia legale: hanno bisogno di avere il presidente uscente dalla loro parte per vincere in Georgia. Il seguito di Trump nella base repubblicana è formidabile. Prendere le distanze da lui significa esporsi a vendette terribili. Può farlo un ex candidato alla Casa Bianca come Mitt Romney che non ha nulla da perdere, ma pochi altri.
Calato il polverone, un bilancio dell’elezione va fatto con grande attenzione ai numeri. Quelli finali arrivano dopo settimane. Spesso i primi titoli dei telegiornali erano sbagliati. Biden ha conquistato la Casa Bianca ma questa è l’unica buona notizia per i democratici. Tutto il resto è andato male. Non c’è stata l’avanzata dei democratici al Senato. Hanno perso seggi alla Camera. Hanno perso seggi in molti Parlamenti dei singoli Stati. Quel vasto rigetto della presidenza Trump che i media progressisti raccontavano da quattro anni, era una favola. Trump ha avuto 72 milioni di voti, molti più che nel 2016. Biden ha fatto ancora meglio, lo ha sorpassato di 5 milioni di voti ed è riuscito a strappargli di stretta misura qualche Stato cruciale. Non è riuscito però a riconquistare in modo significativo la classe operaia, che a maggioranza ha votato ancora per Trump. Non ha riconquistato la Florida dove molti più ispanici hanno votato Trump rispetto al 2016. Le «élite costiere» hanno già pronte due spiegazioni. Gli operai votano Trump perché sono razzisti. Gli ispanici lo votano «contro il proprio interesse». Ci risiamo. Chi non la pensa come noi deve essere moralmente inferiore, portatore di difetti orribili, o idiota. Razzisti, gli operai metalmeccanici del Midwest? Per la verità votarono due volte per Barack Obama. Gli ispanici votano «contro i loro interessi»? Questa affermazione tradisce l’arroganza degli intellettuali. Siamo noi a conoscere i loro veri interessi? Loro sono troppo stupidi e ignoranti?
In realtà chi ha origini cubane o venezuelane forse ha sviluppato una legittima diffidenza verso i piani socialisti di Alexandria Ocasio-Cortez. Chi venne dal Messico non simpatizza per una sinistra radicale «no-border» che vuole abbattere le frontiere: l’importanza di una frontiera la capisce chi la traversò per approdare a uno Stato di diritto, dove tribunali e polizia non sono venduti ai narcos. E come spiegare che un nero su cinque abbia votato Trump? Lo slogan «togliamo fondi alla polizia», urlato nei cortei di Black Lives Matter e adottato dai sindaci democratici di New York e Los Angeles, non convince il ceto medio afroamericano che vede aumentare la delinquenza ai propri danni. Un altro dato interessante viene dai referendum locali che in alcuni Stati affiancavano l’elezione presidenziale e legislativa. Ci sono Stati dove ha vinto Trump ma anche la liberalizzazione della marijuana o l’aumento del salario minimo o il diritto di voto per i pregiudicati, tutte riforme progressiste. Anche questo contraddice la caricatura di un’America trumpiana fatta di ignoranti razzisti e bigotti. Perfino nell’ultra-progressista California, che pure ha votato Biden, i repubblicani hanno conquistato un seggio alla Camera, cosa che non accadeva da tempo.
Covid e recessione occuperanno il 90% dell’attenzione e consumeranno il 90% del capitale politico di Joe Biden. Per il resto del mondo ci saranno gesti simbolici immediati come il rientro negli accordi di Parigi e nell’Organizzazione mondiale della sanità, e un giro di consultazioni con i maggiori alleati europei, il Giappone, la Corea del Sud. Per l’ala ambientalista del partito, a colpi di decreti verrà smontato in poche ore il «governo carbonico» di Donald Trump, cancellando gran parte della sua deregulation. Ai sindacati il presidente restituirà per decreto alcuni diritti cancellati nell’ultimo quadriennio, in particolare nel pubblico impiego. Qualche gesto di Biden fin dalla prima giornata nello Studio Ovale andrà a rassicurare le categorie di immigrati più colpiti, con la levata di discriminazioni, la sospensione delle minacce di espulsione, la fine del Muslim Ban (divieto d’ingresso da alcuni paesi islamici). Rialzerà la quota di profughi di guerra e perseguitati che l’America accoglie. Lancerà una nuova campagna nazionale per alleviare la piaga dei senzatetto, un esercito in aumento per effetto di pandemia e depressione economica. Contro il «razzismo sistemico» ci saranno nuove linee guida federali per il Dipartimento di giustizia e le polizie.
Fermo restando che da qui al 20 gennaio Trump può ancora intervenire su tutti questi fronti con decreti esecutivi per creare ostacoli e intralci al successore, dal primo pomeriggio del 20 gennaio l’agenda Biden comincerà a materializzarsi con una raffica di decreti esecutivi, un iperattivismo pianificato nei minimi dettagli per rafforzare il segnale di svolta: verso la sua base elettorale e verso il resto del mondo, Europa in testa. Una parte di questi segnali saranno simbolici; i cambiamenti più profondi saranno anche i più difficili da realizzare.
Con uno dei primi decreti il neo-presidente costituirà una nuova task force per la pandemia, sarà un’authority «che opera nel rispetto della scienza», ed anche con una responsabilità operativa precisa: coordinamento e vigilanza federale su tamponi e tracciamento. Inoltre ci sarà un «comandante capo della catena logistica e produttiva», per mettere efficienza e ordine nel settore degli apparecchi sanitari, forniture di emergenza agli ospedali, flussi di medicinali. Una vera e propria «economia di guerra» sotto la regia della Casa Bianca, che l’entourage di Biden paragona a quel che fece Franklin Roosevelt per sostenere la produzione bellica all’inizio della seconda guerra mondiale. Questa task force di alto livello sarà pronta a funzionare come infrastruttura e cabina di regìa non appena arriveranno i primi vaccini, per organizzarne la distribuzione nazionale a gran velocità, nel rispetto delle gerarchie di priorità (anzitutto al personale medico, ai soggetti a rischio, agli anziani). Biden vuole proiettare all’esterno l’immagine di una svolta rapida e radicale nell’approccio alla pandemia, ma al di là delle apparenze non tutto cambierà. Sul coronavirus il federalismo fa sì che molto dipende dai governatori, però la Casa Bianca può avere un utile ruolo di coordinamento. Biden deve stare attento a non mettersi subito in rotta di collisione con i governatori repubblicani e l’elettorato di Trump, per esempio con l’obbligo federale di mettere la maschera (di dubbia costituzionalità?). C’è il problema della sanità privata, che tuttavia ha dimostrato di non essere un ostacolo insormontabile: con opportuni accordi tra Stati, ospedali e assicurazioni, sulla base di nuovi finanziamenti già attivati da Trump le cure del Covid sono diventate in gran parte gratuite da diversi mesi.
L’economia è il secondo terreno di guerra su cui Biden si gioca tutto. Per lui Covid e depressione economica sono una cosa sola: «Non usciamo dalla crisi se non abbiamo sconfitto la pandemia». Tuttavia non può esserci un prima e un dopo. 11 milioni di disoccupati attendono risposte immediate. L’economia si sta già riprendendo sotto Trump: il terzo trimestre ha segnato un rimbalzo del Pil del +30%, il tasso di disoccupazione è già sceso al 7% dimezzandosi rispetto al picco massimo raggiunto all’inizio dell’estate. Il problema è la rete di protezione per i più deboli. Molti aiuti ai senza lavoro sono scaduti. Qui entriamo su quel terreno dove Biden deve sfoderare tutta la sua abilità e l’antica esperienza di un politico di lungo corso. Quando si tratta di politica di bilancio, nuove manovre di spesa pubblica, il Congresso è sovrano e il presidente può al massimo suggerire, proporre, mediare e stimolare. Urge trovare un accordo con i repubblicani al Senato, finché conservano la maggioranza. Questo rinvia agli equilibri politici molto precari usciti dalle urne.
Ci sarà mai una «luna di miele» in cui questo presidente potrà contare su qualche appoggio bipartisan? I democratici, guidati dalla presidente della Camera Nancy Pelosi, ancora prima delle elezioni avevano tentato di varare una maxi-manovra (la quarta) da duemila miliardi di dollari. Il Senato sotto la regìa del capogruppo repubblicano Mitch McConnell aveva bloccato quel piano. Per i repubblicani era troppo generoso di sussidi ai disoccupati e di trasferimenti agli Stati (sottinteso: a Stati come California e New York, governati dalla sinistra e prodighi di spese sociali). Qui si entra sull’altro terreno minato per Biden. Il 46esimo presidente si era meritato una fama di grande negoziatore, capace di cucire la tela di accordi con i repubblicani. In cuor suo è un moderato, un centrista. La sua storia indica che Biden è più a suo agio nei negoziati con l’ala ragionevole del Grand Old Party che con Alexandria Ocasio-Cortez. Però il partito repubblicano è cambiato molto, e dovrà vedersela con l’influenza ingombrante di Trump. Inoltre Biden dovrà evitare che la «raffica dei decreti» delle prime ore funga da drappo rosso che eccita l’opposizione a fare un ostruzionismo a oltranza.
Vittoria a metà, sfide multiple
Presidenziali USA - Joe Biden strappa la Casa Bianca a Trump, ma i democratici perdono terreno al Congresso, dove decisiva sarà l’elezione suppletiva in Georgia per il Senato – Riuscirà il neo presidente a trovare intese bi-partisan?
/ 16.11.2020
di Federico Rampini
di Federico Rampini