Vigilia tesa per Trump

Verso il voto di mid-term – Mentre la politica interna domina l’attenzione con i pacchi-bomba, è dall’estero che arriva lo shock. Il presidente deve salvare l’alleanza con Riad dopo aver preso le distanze dalle bugie sull'assassinio di Khashoggi
/ 29.10.2018
di Federico Rampini

«I pacchi-bomba se li spediscono i democratici da soli, per potersi atteggiare a vittime». È stato il leitmotiv dei talkshow di destra, da Rush Limbaugh ad Ann Coulter. Peraltro la portavoce di Trump ha dato la linea accusando la Cnn (destinataria di uno degli ordigni) di «seminare odio». Questo dà la misura del clima velenoso negli ultimi giorni della campagna elettorale per le legislative di mid-term che si tengono il 6 novembre. I pacchi-bomba (tutti inesplosi e intercettati dalla polizia mentre sto scrivendo) sono solo un ingrediente aggiuntivo.

È a senso unico la strategia della micro-tensione, tutti democratici i destinatari. E di preferenza «nemici designati» di Donald Trump, bersagli dei suoi attacchi via Twitter. I Clinton e gli Obama. L’ex ministro della Giustizia obamiano Eric Holder. Una deputata afroamericana della California più volte svillaneggiata dal presidente. L’ex capo della Cia a cui la Casa Bianca ha voluto infliggere un oltraggio speciale (a John Brennan fu revocato il lasciapassare di sicurezza). Il «miliardario liberal» George Soros, quello che appare in quasi tutte le teorie del complotto dell’estrema destra, il tessitore di trame giudeo-plutocratico-globaliste. L’attore Robert De Niro, icona liberal che unisce le sinistre di New York e Hollywood. Il profilo dei destinatari ovviamente non vuol dire che ci sia una regia politica, tantomeno si possono invocare responsabilità dirette dalla Casa Bianca: farlo sarebbe il comportamento speculare alla paranoia che agita l’estrema destra.

Il presidente ha condannato senza ambiguità lo stillicidio dei pacchi-bomba. Dall’Fbi al sindaco di New York Bill de Blasio, la diagnosi è chiara: «terrorismo domestico». Non particolarmente sofisticato. Di ben altra pericolosità furono gli attacchi all’antrace iniziati subito dopo l’11 settembre 2001, che fecero 5 morti e 17 feriti, e dei quali l’Fbi non trovò mai un colpevole certo. Stavolta l’impressione è che la sequenza di attacchi possa fare capo a qualche esagitato di estrema destra, più assetato di clamore che di sangue.

A chi giova? È sempre difficile psicoanalizzare le reazioni dell’elettorato, può anche darsi che non ce ne siano affatto e che il voto alle legislative del 6 novembre si giochi su tutt’altri temi. Hillary Clinton è chiara sulla lezione da trarre: «Dobbiamo fare tutto il possibile per riportare unità dentro la nostra nazione. Dobbiamo eleggere chi lavorerà per questo obiettivo». Ancora più esplicito è il filantropo Alexander Soros, figlio di George: «La responsabilità è di chi ha spedito questi ordigni a casa della mia famiglia e negli uffici di Obama e Clinton, ma non possiamo scindere questi atti dalla demonizzazione politica che è la nuova normalità, la piaga del nostro tempo.

Le cose sono peggiorate dalla campagna elettorale di Trump. Ha liberato il genio dalla bottiglia, ci vorranno generazioni per rimetterlo dentro, e tutto ciò non rimane confinato dentro gli Stati Uniti».

La prospettiva storica in realtà ci ricorda che la violenza politica è americana quanto il jazz e i jeans. Gli Stati Uniti hanno il record di presidenti assassinati nell’esercizio delle loro funzioni. Dall’Ottocento di Abraham Lincoln al Novecento dei fratelli Kennedy c’è una scia di sangue che include tra gli altri Malcom X e Martin Luther King; più tutte le vittime del terrorismo politico razzista del Ku Klux Klan che non sono delle celebrità, ma semplici cittadini linciati o impiccati per il colore della loro pelle in un regolamento di conti infinito che risale alla guerra di secessione. In confronto a quei precedenti storici, gli ultimi anni sono relativamente «pacifici», nel senso che la violenza endogena si è spostata altrove: nelle sparatorie di massa che colpiscono alla cieca.

Di certo l’atmosfera è contaminata, stavolta non dall’antrace ma dalle parole. L’insulto urlato, la diffamazione oscena, l’offesa personale, la menzogna ignobile sono le armi di distruzione di massa che molti praticano con godimento, convinti di essere giustizieri investiti da una missione. Poi qualcuno più folle o più determinato, più malvagio o più incattivito, all’arma dell’odio paroliero aggiunge l’esplosivo. Di certo chi occupa oggi la Casa Bianca non fa nulla per rasserenare, placare, esortare a seguire «gli angeli migliori della nostra natura». Questa, non a caso, è una citazione di Lincoln.

Mentre la politica interna domina l’attenzione, è dall’estero che arriva lo shock più grave. Donald Trump deve salvare l’alleanza con l’Arabia Saudita, dopo aver preso le distanze dalle menzogne sul feroce assassinio di Stato del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, torturato e massacrato dentro un consolato saudita in Turchia. In gioco c’è molto più del petrolio, c’è tutta la politica mediorientale degli Stati Uniti, già in crisi per l’avanzata di altri attori in quell’area: Russia, Cina, più le potenze regionali che sono la Turchia e l’Iran. La posta è enorme. Un anno e mezzo fa, quando seguii Trump nel suo primo viaggio presidenziale all’estero, quell’itinerario la diceva lunga. Con una scelta senza precedenti, Trump decise che la sua prima tappa straniera sarebbe stata proprio Riad, seguita da Gerusalemme.

Con la monarchia saudita firmò accordi che prevedevano forniture a lungo termine di armamenti per 150 miliardi di dollari: il che fa dell’Arabia il più grosso cliente estero dell’industria bellica Usa, da Lockheed Martin in giù. C’è anche un risvolto privato, il filo degli affari finanziari che legano i capitali sauditi alla famiglia Trump e a quella del genero Jared Kushner. Questo presidente ha dato «in appalto» la sua strategia mediorientale alla monarchia saudita e a Benjamin Netanyahu. Ha fatto proprio il disegno israelo-saudita di isolare, rovinare economicamente, e possibilmente rovesciare il regime degli ayatollah a Teheran. Il petrolio è quasi marginale visto che l’America ha raggiunto una sostanziale autosufficienza energetica, mentre i grandi flussi del greggio dal Golfo Persico vanno verso la Cina e l’India.

Armi e finanza sono il collante di un disegno che è prima di tutto geopolitico. Tanto più ora che la Turchia si allontana dall’Europa e allenta la sua lealtà alla Nato, per avvicinarsi a Vladimir Putin, guai se dovesse destabilizzarsi la monarchia saudita. Nell’asse con Riad, l’ossessione anti-iraniana che risale ai neoconservatori dell’èra Bush, ha trovato qualche sponda insperata anche a sinistra. Dopo che Trump lasciò Riad nel maggio 2017, e lì avvenne l’ascesa al potere del principe MbS, un’apertura di credito verso il «modernizzatore» fu concessa da una delle firme più prestigiose del giornalismo liberal.

Thomas Friedman, il maggiore esperto del «New York Times» per il Medio Oriente, incassò un’intervista esclusiva col principe MbS e manifestò speranze sui suoi progetti riformatori. Poteva finalmente chiudersi – scrisse allora Friedman – un’èra funesta iniziata nel 1979 con due eventi gemelli: l’avvento della teocrazia in Iran, e la svolta oscurantista della monarchia wahabita, dal quel momento impegnate a farsi concorrenza nel sostegno ai fondamentalismi anti-occidentali. Il successivo viaggio di MbS in America fu un percorso dosato per corteggiare anche l’opinione liberal, a cominciare dai potentati digitali della Silicon Valley.

Gran parte dell’establishment americano volle credere alla favola del despota illuminato. Sorvolando sui massacri in Yemen, per dare più visibilità alla patente di guida concessa alle donne. Da tempo la monarchia dei Saud è diventata il sostituto dello Scià di Persia: il gendarme degli interessi americani nel Golfo. Solo se regge il pilastro saudita insieme con quello israeliano, Trump può evitare una ritirata disastrosa dell’influenza Usa in quell’area, dopo aver confermato a Putin il protettorato siriano, e dopo che l’influenza cinese avanza in Pakistan e Iran. Il disastro d’immagine di MbS, con l’orrenda mattanza del giornalista dissidente che gli viene attribuita, ha già dissuaso Wall Street che boicotta la sua «Davos nel deserto».

Trump nelle ultime dichiarazioni sull’affare Khashoggi ha preso le distanze dal principe MbS, pur appoggiando il re: un segnale che all’America non dispiacerebbe un nuovo «golpe di palazzo» che metta in disparte l’uomo forte responsabile di troppi disastri? Sembra che la Casa Bianca si prepari a varare delle sanzioni diplomatiche, molto limitate però (tipo revoca di visti ai dirigenti sauditi coinvolti nella barbara eliminazione del giornalista), e che certamente non toccherebbero le maxi-forniture militari. Si ripete – ancorché in una situazione molto meno drammatica – la sindrome dell’11 settembre e cioè l’incapacità dei leader americani di staccare il cordone ombelicale con la monarchia saudita. L’antefatto più importante è questo: l’11 settembre una cospicua parte dei terroristi erano sauditi, così come il loro regista Osama Bin Laden. Non solo George W. Bush non fece nulla per indagare eventuali appoggi dall’alto ma organizzò un’evacuazione di tutte le potenti famiglie saudite che si trovavano a Washington per il meeting degli investitori Carlyle. L’unico jet civile autorizzato a decollare quando venne chiuso lo spazio aereo, fu quello che riportava a casa i magnati sauditi.

L’altro tema che continua ad aleggiare su tutta la vicenda: a che gioco gioca Erdogan? Una delle cose che più preoccupano gli americani è che questa vicenda rafforza un leader islamico legato a doppio filo coi Fratelli Musulmani. È proprio quel legame una delle ragioni profonde del dissidio Ankara-Riad. Erdogan è una sovranista-populista in stile ottomano tant’è che vide con favore le primavere arabe, divergendo radicalmente dai sauditi nel giudizio su quella stagione.