Vietnam, la fine di una sporca guerra

Cinquant’anni fa vennero sottoscritti a Parigi gli accordi che spianavano la strada verso la conclusione del conflitto.Però le cruente ostilità tra i comunisti del nord e i loro avversari del sud – sostenuti dagli USA – continuarono fino al 1975
/ 23.01.2023
di Alfredo Venturi

Sono passati cinquant’anni da quel giorno di gennaio (il 27) del 1973 che vide il mondo tirare un sospiro di sollievo. Il consigliere americano per la sicurezza nazionale Henry Kissinger, futuro segretario di Stato, e il diplomatico vietnamita Le Duc Tho avevano sottoscritto a Parigi gli accordi che spianavano la strada verso la fine del più sanguinoso fra i conflitti seguiti alla seconda guerra mondiale. Ma quel sollievo era prematuro: è vero che gli Stati Uniti si erano disimpegnati, ma fra le foreste e le risaie dell’Indocina le cruente ostilità fra i comunisti del nord e i loro avversari del sud continuarono. Si dovette aspettare la primavera del 1975 perché cadesse Saigon e il trionfo annessionista del nord consegnasse alla storia un Paese unito sotto le insegne di Ho Chi Minh. Il leggendario capo militare e politico era venuto a mancare nel pieno della lunga guerra in cui aveva impersonato una caparbia volontà di resistenza. Non a caso l’ex capitale sudista prenderà il suo nome.

Dunque un sollievo prematuro, quello che mezzo secolo fa salutò gli accordi di Parigi. I due negoziatori ricevettero il premio Nobel per la pace, ma soltanto Kissinger lo accettò. Le Duc Tho declinò il riconoscimento perché, nonostante quel successo diplomatico, il suo Paese continuava a essere dilaniato dalla guerra. Il fatto è che dal punto di vista americano il negoziato parigino era parte di una più ampia exit strategy (strategia di uscita). Gli Stati Uniti intendevano porre fine alla più impopolare fra le guerre che mai avessero combattuto, costata quasi sessantamila morti e un’impressionante quantità di risorse finanziarie, ma al tempo stesso volevano salvare il Governo alleato del Vietnam meridionale e quindi continuarono a rifornirlo di armi e denaro. Era quello che Kissinger, abile creatore di formule, chiamava vietnamizzazione del conflitto, passata alla storia come «Dottrina Nixon». Washington aspirava a un dignitoso disimpegno, ma un amaro destino era in agguato: la caduta di Saigon il 30 aprile 1975 avrebbe completato una umiliante sconfitta americana.

Quel bilancio impietoso di ragazzi falciati dalla guerra e spese militari senza fondo era lo scotto imposto dalla «Dottrina Truman», la missione geopolitica che gli Stati Uniti si erano attribuiti, sull’onda retorica del manifest destiny, dopo che l’alleanza con l’Unione Sovietica ebbe raggiunto il suo scopo, cioè la distruzione del nazismo. La dottrina elaborata dal successore di Roosevelt si poneva come scopo il contenimento dell’espansione comunista nel mondo e mirava in particolare a impedire l’effetto domino, il rischio che l’instaurazione di un regime rosso in un determinato Paese potesse contagiare i Paesi confinanti e dunque allargarsi a intere aree geopolitiche. Per questo, dopo che i vietnamiti si furono sbarazzati dell’occupazione coloniale francese, la Casa Bianca favorì la divisione del Paese, che mirava a confinare nel nord l’ideologia filo-sovietica e filo-cinese di Ho Chi Minh e ad affidare al sud la funzione di baluardo anticomunista.

Ma il baluardo non ebbe vita facile. Hanoi, la capitale del nord del Vietnam, affiancava al verbo marx-leninista la rivendicazione nazionalista, e dunque puntava alla riunificazione del Paese. La guerra civile cominciò ben presto e l’impegno degli Stati Uniti, inizialmente limitato al sostegno finanziario e alla fornitura di armi, scivolò sempre più rapidamente verso il diretto coinvolgimento militare. Intanto un crescente numero di soldati dell’esercito nordvietnamita andava a integrare e addestrare le formazioni vietcong, i partigiani del sud. Mentre a Washington si avvicendavano presidenti democratici come Kennedy e Johnson e repubblicani come Nixon e Ford, tutti ugualmente sostenitori della «Dottrina Truman», ormai la storia imponeva i suoi ritmi inarrestabili.

Una parola imposta dai generali americani, escalation, invase le cronache internazionali nei primi anni Sessanta, dopo che il vicepresidente Johnson ebbe preso il posto di Kennedy assassinato a Dallas. Stava a significare che la risposta militare andava sistematicamente adeguata al livello del potenziale offensivo nemico. Dai primi consiglieri militari mandati per addestrare le forze sudvietnamite, non più di 16mila nel 1963, si passò all’invio di intere unità di combattimento, portaerei e bombardieri strategici. Il presidente Johnson aveva chiesto e ottenuto l’autorizzazione del Congresso a combattere senza paralizzanti formalità quali la dichiarazione di guerra.

E così l’escalation venne rapidamente accelerata. Sempre nuove unità vennero inviate al fronte: fra forze terrestri, aeree e marittime i militari impegnati in battaglia crebbero fino ai 550mila del 1968. Applicando la tattica denominata search and destroy, ricerca e distruzione, che implicava lo scontro diretto con il nemico, subirono un altissimo tasso di mortalità e vulnerabilità in azione. Furono complessivamente coinvolti circa tre milioni di cittadini degli Stati Uniti, tanti furono gli americani che si avvicendarono sul campo. Escalation anche di forza distruttiva: si calcola che le incursioni aeree e navali scaricarono sul Vietnam sette milioni e mezzo di tonnellate di bombe, il doppio del carico esplosivo sganciato nella seconda guerra mondiale. Furono bombardati non soltanto gli obiettivi militari ma anche le città e i villaggi: alla fine della guerra le vittime vietnamite superarono, secondo stime locali, i tre milioni fra militari e civili.

Ancora prima che si arrivasse a questo, la guerra indocinese aveva provocato un terremoto nella società americana. Soprattutto i giovani, chiamati alle armi per essere spediti in quell’inferno, animarono un vasto movimento di protesta. Il mondo della cultura prese massicciamente posizione a favore dei gruppi pacifisti, mentre l’opposizione al conflitto veniva esacerbata non solo dai troppi lutti ma anche dalle notizie dei crimini commessi da alcuni reparti americani a danno di civili, come il massacro di My Lai. La pressione dell’opinione pubblica fu determinante per indurre la presidenza Nixon a cercare la via della pace. Che fu, inevitabilmente, anche la via della sconfitta: una volta ancora Golia dovette arrendersi davanti a Davide.