Vietato ridere di Stalin

Russia – Il Ministero della cultura ha interdetto l’uscita nelle sale del film inglese Morto Stalin, se ne fa un altro, prevista per il 25 gennaio. In questa campagna elettorale la decisione ha il valore di una presa di posizione politica
/ 05.02.2018
di Anna Zafesova

La campagna elettorale in Russia per il voto del 18 marzo è iniziata, ma il primo scandalo di questa stagione politica non è stato su un dibattito di attualità, bensì su un film che racconta un evento del 1953. Il 26 gennaio scorso il ministero della Cultura russo ha revocato la licenza di distribuzione al film inglese La morte di Stalin (titolo italiano Morto Stalin se ne fa un altro), una commedia noir di Armando Iannucci che racconta la lotta per la successione al dittatore sovietico. Tratto da una «graphic novel» francese, è una narrazione surreale e cruento, che però rispetta abbastanza i fatti storici, e le gesta dei personaggi, da Beria a Krusciov. 

Il ministro della Cultura Vladimir Medinsky ha convocato deputati, cineasti, consiglieri e storici per una proiezione speciale della pellicola, alla fine della quale quasi tutti i presenti si sono espressi a favore del divieto: «è una presa in giro offensiva del passato sovietico», «un film estremista e falso», «profanazione dei simboli sovietici», «parte del complotto internazionale contro la Russia», sono stati i commenti di intellettuali del calibro del regista Nikita Mikhalkov e dello scrittore Yuri Poliakov. Il ministro ha negato che si tratti di censura: «Non abbiamo la censura, ma c’è un confine morale tra l’analisi critica della storia e la profanazione».

È la prima volta che il ministero della Cultura russo vieta una pellicola già uscita nelle sale, e la sera del 26 gennaio le casse del cinema Pioner di Mosca – che ha continuato a proiettare La morte di Stalin con il pretesto di non aver ricevuto una comunicazione ufficiale – erano assediate da centinaia di persone ansiose di vedere la pellicola proibita. In poche ore erano stati venduti i biglietti per tutte le proiezioni per la settimana successiva, e al botteghino stazionavano decine di persone, nella speranza di una poltrona che si liberasse all’ultimo momento. Una ragazza che è riuscita ad ottenere il biglietto ha quasi pianto di gioia davanti ai giornalisti: «Saputo che il film veniva proibito in Russia volevo andare in Bielorussia, ma è stato proibito anche lì, stavo per partire per Kiev».

Alla proiezione pomeridiana erano presenti soprattutto gli anziani, che hanno pianto più che ridere: Nina Ivanovna, 83 anni, ha detto a Radio Liberty che il film «non è una satira, è tutto vero, ero andata ai funerali di Stalin». Dal canto suo il pensionato Nikolay Zariov è rimasto deluso: «Mi aspettavo una satira surreale, ma non è molto divertente, racconta le cose proprio come erano accadute, nulla di offensivo». Alla proiezione serale, piena di giovani, le risate in sala erano più frequenti. Con grande delusione del pubblico, il giorno dopo Pioner ha sospeso le proiezioni: «Per tutti i problemi, rivolgetevi al ministero della Cultura», ha annunciato il cinema sul suo account Twitter.

La situazione sembrava molto più surreale del film stesso: mentre i moscoviti si affollavano alle casse dell’unica sala cinematografica che ha osato sfidare la censura, il mondo politico ribolliva di indignazione. Il nipote di Stalin, la figlia del maresciallo Zhukov e perfino il figlio di Krusciov hanno denunciato la «falsificazione» e l’«umiliazione» contenuti nella pellicola, e il ministro Medinsky – capofila dei «falchi» nazionalisti e sponsor di film russi contestati come falsi della propaganda – ormai parla apertamente di un complotto: «Il film è stato girato a Kiev, non è casuale», ha dichiarato. I siti internet legati ai nazionalisti e agli ambienti militari sono ancora più espliciti nell’affermare che La morte di Stalin è un attacco ideologico ai russi ordito dagli Usa, dall’Ue e dagli ucraini, con insulti razzisti al regista Iannucci, definito «vile servo italiano» (nonostante sia scozzese).

Come ai tempi sovietici, la satira torna a essere richiesta dai russi – del resto, i film-denuncia contro la corruzione pubblicati su Internet da Alexey Navalny sono pieni di un sarcasmo feroce – e perseguitata dal governo. La Russia aveva già bandito a suo tempo Borat di Sasha Baron Cohen, e il ministro Medinsky proibisce sempre più spesso film che secondo lui non raffigurano la Russia in una luce positiva, come il thriller ambientato in epoca staliniana Il bambino numero 44, oppure «propagandano l’omosessualità», come Love di Gaspar Noe. Ufficialmente, una pellicola può essere proibita se contiene un messaggio di «estremismo», oppure informazioni proibite per la diffusione in Russia, e gli stessi funzionari governativi hanno espresso timide perplessità sul fatto che il film britannico violi alcun regolamento. Perfino il primo ministro Dmitry Medvedev si è mostrato infastidito, chiedendo di introdurre regole precise per l’emissione delle licenze cinematografiche: «Invece di regole chiare per tutto il mercato saltano fuori delle decisioni che danneggiano la fiducia».

Il caso di La morte di Stalin però assume in campagna elettorale il valore di una presa di posizione ufficiale, e non a caso la candidata dell’opposizione Xenia Sobchak ha minacciato di proiettare il film nel suo quartier generale. «Il regime ormai fa risalire esplicitamente la sua genealogia a Stalin», scrive su «Vedomosti» Andrey Kolesnikov del Carnegie Center, e la propaganda associa lo stalinismo alla vittoria nella Seconda guerra mondiale e all’ordine, parola chiave di Vladimir Putin. Secondo i sondaggi dell’istituto indipendente Levada-zentr, il 39% dei russi è favorevole all’installazione di monumenti e lapidi a Stalin, contro il 53% del 2005, e solo il 41% ritiene che il dittatore abbia scatenato una campagna di terrore contro il suo popolo (58% nel 2000).

In questo contesto, con monumenti, film e libri dedicati al «padre dei popoli», ridere di Stalin, e della lotta fratricida per la successione, combattuta al suo capezzale dai fedelissimi, diventa un’allusione fin troppo esplicita a un presente che è vietato discutere in pubblico. E in assenza di un dibattito sull’attualità, con una campagna elettorale dall’esito predefinito e il principale leader della protesta contro il Cremlino, Navalny, bandito dalle elezioni, scrive l’ex deputato liberale della Duma Dmitry Gudkov, «ogni conflitto nella società si riduce ormai a uno scontro tra il passato e il futuro».