«Ricordo ancora quel giorno, lo sapevo che prima o poi sarebbe arrivato. Lo stavo aspettando. Quel giorno quando mio figlio e sua moglie hanno indicato la porta di casa e mi hanno detto che non potevo più stare con loro, che dovevo andare via. Ero una vedova, non potevano mantenermi, dovevo aiutarmi da sola». Quel giorno per Dayita, 75 anni, è arrivato poco dopo un anno dalla morte del marito. La incontro fuori da uno degli ashram (luogo di meditazione) di Vrindavan, la città delle vedove. È qui, in questa cittadina quasi a metà strada tra Delhi e Agra, che trovano rifugio molte donne indiane che hanno perso il marito e che le famiglie non vogliono più sostenere.
Sono più di 10mila e arrivano da tutta l’India. Tante sono vestite con un sari bianco (il bianco è il colore del lutto in questo Paese), vivono nei vari templi della città. Essere vedova in India significa la perdita di ogni diritto e l’emarginazione sociale, ancora di più per chi appartiene alle caste povere. Addirittura un tempo, per «sfuggire» a questa condizione, c’era il rito della «sati», cioè la pratica di immolarsi sulla pira insieme al marito defunto. Oggi per molte di loro non rimane che rifugiarsi in questa città sacra per gli indiani. Perché è qui, a Vrindavan, che fu portato Krishna subito dopo la nascita e dove visse la sua infanzia.
Le vedove pregano per ore, con litanie e canti, durante il mattino e nel pomeriggio nei vari ashram cittadini e in cambio ricevono un piatto di riso e lenticchie. E un posto dove dormire sul pavimento all’interno del tempio. Tutto quello che hanno è quello che si portano addosso. Le vedi camminare nelle strade polverose, alcune appoggiate a un bastone, altre rasentando i muri di calce. La popolazione qui non le ama molto e le rispetta meno di altre donne. «Quello che mi danno da mangiare non mi basta e allora chiedo l’elemosina. Mi vergogno ma ho fame», dice Bani, seduta al margine di una strada, sfiorata dai motorini e dal vociare dei giovani, mentre allunga la mano in cerca di un’offerta e con davanti una ciotola di metallo con dentro poche rupie. Ha gli occhiali spessi Bani, il suo sari da bianco è diventato grigio come i suoi capelli. «Lo so – continua con il suo accento del Bengala – è un’umiliazione per me. Ma era molto più umiliante come venivo trattata dai miei figli e dalle loro mogli dopo essere diventata vedova. Per loro ero diventata un peso, un fardello da sopportare. Mi riempivano di parolacce, mi consideravano una schiava, non mi davano da mangiare». Intanto con le mani nodose Bani si sistema la sciarpa bianca che le copre i capelli. «Dicevano addirittura che portavo sfortuna. Allora, senza dire niente a nessuno, ho deciso di andarmene, allontanarmi da casa per venire qui».
In questa cittadina le vedove vengono spogliate di tutti quei simboli che ricordano la loro condizione prima del lutto: i capelli devono essere corti, nessun sari colorato, nessun gioiello. Vrindavan è attraversata dalle acque limacciose del fiume sacro Yamuna, dove lungo le sue sponde, nel pomeriggio quando il sole sta per tramontare, si celebrano rituali e preghiere in onore di Krishna. Occidentali seguaci del culto si mischiano agli indiani. Si accendono fuochi, si canta e si suonano tamburi. Un rituale bello e spirituale, ma non sufficiente a rasserenare l’animo di Deepali, una vedova che guarda da lontano la cerimonia e che dice di avere 70 anni, ma la sua pelle e il suo sguardo dicono molti di più. Sussurra la sua storia, simile a tante altre: cacciata di casa dopo essere rimasta vedova, non più amata o forse mai amata dai suoi figli, sola senza sapere dove andare. La fame unita al disprezzo delle persone vicine. «E così sono arrivata a Vrindavan, con il mio sari bianco. Nessuna delle altre donne mi ha chiesto la mia storia. Qui siamo tutte simili, quasi sorelle in questa cattiva sorte, ognuna con il nostro dolore». Fa un respiro profondo Deepali, mi guarda e accenna un sorriso mesto e poi si allontana, curva sulle spalle, avvolta dalla luce arancione del tramonto e i suoi passi sembrano quasi sospesi sulla terra rossa.
In un Continente vasto e pieno di contraddizioni come l’India, la discriminazione nei confronti delle donne è forte e radicata (discriminazione comunque diffusa, in forme diverse, in tutto il mondo). Una condizione sociale difficile da cambiare. Assoggettate al patriarcato, quando diventano vedove perdono ogni diritto, anche se la Costituzione indiana non discrimina i due sessi. Restano sottomesse agli uomini, che tendenzialmente non vogliono cambiare mentalità. Dalla porta di un tempio escono litanie e preghiere. L’interno è semivuoto; il profumo dell’incenso cerca di nascondere l’odore stantio che pervade la grande sala. Poche donne accovacciate sotto una fioca lampada intonano canti a Krishna. Nella penombra altre dormono sdraiate sul pavimento, avvolte in vecchie coperte, con la ciotola del riso accanto. Sembrano tutte appese a questo limbo di tempo, in attesa, nel loro purgatorio di Vrindavan, rassegnate allo scorrere della loro vita fatta di canti, preghiere ed elemosina. E forse sognano e ricordano il tempo in cui portavano sari colorati, capelli lunghi e neri, quando la loro esistenza era certamente più dignitosa. Con accanto il marito e i loro figli.