Theresa May (AFP)


«Via dall’Ue non dall’Europa»

Brexit – Il premier britannico Theresa May ha tenuto a Firenze un discorso sul futuro delle negoziazioni tra il suo Paese e l’Unione europea dai toni concilianti. Ma intanto si prepara al congresso del suo partito più diviso che mai
/ 02.10.2017
di Cristina Marconi

Scegliere di andare a Firenze per pronunciare un discorso sull’Europa senza neppure premurarsi di avere una scenografia da evento storico potrebbe non essere stata una svista o un insolito segno di sciatteria da parte della premier britannica. Theresa May, alle prese con il doppio compito di ridare slancio alla sua leadership martoriata dal colpo autoinferto del voto di giugno e di infondere al contempo nuova linfa ai negoziati con Bruxelles, sapeva di dover dare qualcosa all’Europa – in questo caso i 20 miliardi di sterline per regolare i conti da qui al 2020 e i due anni in cui Londra si comporterà da paese europeo pur senza esserlo più – senza legarsi le mani in vista di quello che, per la sua sopravvivenza politica, sarà l’appuntamento cruciale: la convention dei Tories a Manchester e il discorso di chiusura dal titolo «Una Brexit che funzioni per tutti» che pronuncerà la mattina del 4 ottobre, dopo quattro giorni di fuochi d’artificio in cui inevitabilmente qualcuno ragionerà sull’opportunità o meno di tenerla a Downing Street. 

Nel capoluogo toscano la May ha parlato con toni concilianti alla Ue e agli imprenditori britannici, terrorizzati all’idea di avere solo un anno e mezzo, ossia fino al marzo del 2019, per adeguarsi a regole di cui non si conoscono ancora i contorni, mentre ora dovrà rivolgersi al suo partito, attraversato dalla consueta frattura tra euroscettici e moderati e da una crisi d’identità più profonda che mai, con i toni accesi che si addicono ad un congresso di partito. Per questo la May dovrà tornare a riesumare il ruolo della «donna tremendamente difficile», smussato dagli eccessi della primavera scorsa, se vorrà convincere il partito di essere sempre lei la condottiera giusta per la battaglia della Brexit. 

Meno male che c’è un’opposizione che permette di stringersi intorno ad alcuni punti fondamentali, come il fatto che il libero mercato sia «il più grande agente di progresso umano collettivo mai creato», secondo quanto dichiarato dalla May all’indomani del discorso anticapitalista pronunciato dal leader laburista Jeremy Corbyn davanti ad una platea in estasi. «È indubbiamente il mezzo migliore, e anche l’unico sostenibile, per migliorare le condizioni di vita di tutte le persone nel Paese», ha spiegato la premier alla cerimonia per il ventennale dell’indipendenza della Banca d’Inghilterra, sapendo che sul suo approccio a favore delle imprese e sulla sua visione compassionevole da figlia di vicario si gioca la sua capacità di tenere insieme il Paese in un momento così delicato. 

Su tutto il resto c’è discordia: il fatto stesso di aver suggerito un periodo di transizione, o di «adeguamento» come preferisce descriverlo la May, ha irritato il fronte euroscettico, che deve rispondere a quella parte dell’elettorato che pensava seriamente che il paese potesse lasciare la Ue senza cerimonie il giorno dopo il referendum. Due anni, poi, sarebbe il risultato di un compromesso, visto che per il cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond ne sarebbero serviti molti di più. L’idea della premier è quella di arrivare alle elezioni del 2022 con la Brexit fatta, un’economia non troppo danneggiata e, se possibile, una reputazione rafforzata dall’aver portato a termine una missione giudicata da tutti impossibile. 

Non tutti sono d’accordo a lasciarla lavorare, però. Dietro le flautate dichiarazioni di sostegno degli ultimi tempi, il primo a far scintillare la lama del pugnale è stato come al solito Boris Johnson, che ha fatto imbufalire tutto l’arco costituzionale tornando a usare le cifre iperboliche e notoriamente false della campagna referendaria – 350 milioni di sterline a settimana da dare al servizio sanitario nazionale – per illustrare la sua visione della Brexit in un articolo sul «Telegraph» uscito ad una settimana dal discorso di Firenze. Non è sfuggito a nessuno che il pezzo avesse tutto il sapore di una autocandidatura e il ministro degli Esteri ha dovuto subito spiegare la propria posizione, dicendosi ancora una volta «tutto dalla parte» della premier. 

Ma quando la May ha suggerito di essere «creativi e fantasiosi» nei negoziati per la Brexit – messa in soffitta l’idea di poter essere una leader «stabile e forte», non resta che invocare un po’ di senso artistico – ha involontariamente fatto la descrizione del suo rivale: quando la realtà inizia ad essere troppo difficile, come con il dossier Bombardier, quello con cui in un colpo solo la May rischia di giocarsi il rapporto commerciale con gli Stati Uniti e la periclitante alleanza con i nordirlandesi del DUP in un colpo solo, anche i Tories potrebbero decidere di essere «creativi» e affidarsi al più creativo di tutti, Boris. Che negli anni ha accumulato troppi nemici nel partito per poter dare seguito al suo appeal nazionalpopolare, ma che continua ad essere una spina nel fianco per tutti. 

Di attacco alla leadership formalmente non si parla, anche se nelle ultime settimane era circolato il nome di Jacob Rees-Mogg come possibile favorito dei Tory alla successione a Downing Street. Un’ipotesi talmente inquietante, quella dell’eurofobo vecchio stile Rees-Mogg, uno che si è detto contrario all’aborto anche nei casi di stupro, da dare smalto anche alla premiership appannata della May, che starebbe comunque preparando un piano d’emergenza nel caso Boris Johnson decidesse di salire sul ring. Ipotesi che il partito teme, anche perché destabilizzerebbe così tanto il quadro politico da portare forse a nuove elezioni, cogliendo il partito laburista in una posizione di forza, con i sondaggi che danno Jeremy Corbyn come favorito per entrare a Downing Street. Anche se è difficile che la maggioranza del Paese abbracci le idee socialiste del leader del Labour, quest’ultimo ha dimostrato di essere abbastanza duttile e sensibile da attirare una fetta ancora più larga dell’elettorato. Ha dimostrato di non poter essere sottovalutato, soprattutto. 

Ci sarebbero una trentina di deputati conservatori a voler un nuovo leader del partito, ma per fare qualcosa di concreto bisognerebbe arrivare almeno a quota 48. Oltre ai pro-Boris, quelli da cui la May deve guardarsi sono soprattutto i moderati cameroniani, quelli che dopo aver vinto (bene) il voto del 2015 si sono ritrovati cancellati da ogni poltrona e posto di potere dopo il referendum e dopo l’arrivo della ex ministro dell’Interno a Downing Street. L’ex cancelliere dello Scacchiere George Osborne ha rilasciato dichiarazioni pesantissime sulla premier – una morta che cammina, una che voglio vedere a pezzi nel mio frigo – mentre gli altri tacciono aspettando il momento della vendetta. La situazione è talmente tesa e fuori dall’ordinario che neppure cinque attentati terroristici in sei mesi hanno portato a richieste di dimissioni o sconvolgimenti politici. Amber Rudd, succeduta alla May all’Home Office e aspirante successore anche a Downing Street, non ha mai parlato di fare un passo indietro davanti agli evidenti fallimenti sull’antiterrorismo e sulla gestione delle lettere inviate per sbaglio ad un centinaio di cittadini europei nel Regno Unito in cui si chiedeva loro di lasciare immediatamente il Paese. Con una premier senza maggioranza e dalla tenuta incerta che parla di una Brexit che va ancora definita in un contesto così polarizzato in cui neppure il libero mercato si può più dare per scontato, i tre anni e mezzo che ci separano dall’uscita totale e definitiva dalla Ue, con le accelerazioni e le giravolte della politica britannica degli ultimi anni, rischiano di sembrare cinquanta.