«L’abbraccio dell’orso», con cui Narendra Modi ha stretto Donald Trump alla Casa Bianca, è stato oggetto d’ironia e dileggio sui social media. Ma dietro quella manifestazione un po’ goffa, che ha creato evidente imbarazzo nel presidente americano, c’era un fatto sostanziale. India e America, le due più grandi democrazie del mondo, sono gemellate per diverse ragioni.
Modi ha preceduto e anticipato Trump come campione di un nazional-populismo che rimane una forza politica in ascesa in tante parti del mondo, malgrado le battute d’arresto delle recenti consultazioni elettorali in Inghilterra e in Francia. Il fatto è che questa India rappresenta un «mito» ben diverso da quello che noi abbiamo inseguito per generazioni. Non è davvero l’India mite e spiritualista. Modi è un vegetariano e pratica lo yoga, ciò non gli impedisce tuttavia di essere un nazionalista duro. Con Trump è in sintonia per tante ragioni, come ha dimostrato la sua visita a Washington. C’è l’ovvia convergenza strategica per contenere l’espansionismo cinese, ma questa era vera anche ai tempi di Barack Obama, e prima ancora era fiorita con George W. Bush, quando a New Delhi governava ancora il partito del Congresso della famiglia Gandhi, laico e vagamente socialista.
La nuova geometria delle alleanze segue delle regole obbligatorie e antiche. L’Imperativo Geografico per l’India moderna dall’Independence Day del 1947 ha sempre imposto due priorità inevitabili. La prima è fronteggiare la teocrazia islamica del Pakistan (che precedette di molto l’Iran nell’adottare la religione come fondamento identitario dello Stato). La seconda è di proteggersi dalla superpotenza più vicina, la Repubblica Popolare cinese, l’unico paese oltre al Pakistan con cui l’India moderna abbia combattuto una vera guerra (1962). Ma per una parte della sua storia è a Mosca che l’India andò a cercare il contrappeso della Cina, quando le due chiese del comunismo mondiale erano diventate acerrime rivali. Ai tempi di Indira Gandhi l’India era parte del movimento dei «non allineati», detto anche Terzo mondo perché si rifiutava di entrare nei sistemi di alleanze contrapposte della Nato o del Patto di Varsavia, però c’era una vera amicizia con l’Unione sovietica ed un’evidente attrazione verso il suo modello di pianificazione economica. Il fatto che oggi sia l’America l’alleata obbligatoria, non sarebbe apparso scontato neppure vent’anni fa. È un frutto anche della conversione indiana al capitalismo, sia pure in versione molto meno liberista dell’America e perfino più statalista della Cina.
Con il duo Modi-Trump assistiamo ad una sorta di allineamento valoriale. Non c’è solo una convenienza politico-militare a fare fronte comune per contenere l’espansionismo cinese in Asia. C’è anche una sintonia culturale più profonda. È questa che allontana l’India di Modi da tutte le «caricature gentili» in cui l’Occidente si è cullato da due secoli a questa parte. I romantici tedeschi e Schopenhauer. Il Siddharta di Hermann Hesse. I poeti americani della Beat Generation. Il viaggio dei Beatles alle pendici dell’Himalaya, tra sitar e meditazione trascendentale, nell’anno di grazia 1968. Questa è l’India eterna reinventata ad uso e consumo di élites occidentali che hanno voluto venerare in quella civiltà la madre di tutte le religioni, un giacimento inesauribile di miti, la sorgente primaria della «vera saggezza», giù giù fino al formidabile esempio di pacifismo e non violenza del Mahatma Gandhi, ispiratore di Martin Luther King e di Nelson Mandela. Dopo esserci fatti sedurre a lungo da questa India largamente immaginaria (magari «costruita» usando materiale vero, ma su misura dei nostri bisogni e delle nostre aspirazioni, delle nostre illusioni e dei nostri sogni), abbiamo avuto uno shock circa vent’anni fa nello scoprire un altro mito indiano, meno scontato: Bangalore, la capitale mondiale del software.
È una vicenda che ricordo bene perché s’incrocia con la mia vita personale. Stavo preparandomi a traslocare nella Silicon Valley californiana, quando l’America e poi il mondo intero furono contagiati dalla febbre del Millennium Bug. Si trattava della psicosi di un blackout informatico mondiale, che sarebbe scattato nella notte fra il 31 dicembre 1999 e il primo gennaio 2000, perché la maggioranza dei software non erano stati programmati per le date del terzo millennio. Allarme infondato, scoprimmo in seguito, ma intanto scattò una corsa ad aggiornare i software che fece esplodere la domanda di lavoro per esperti informatici. Non ce n’erano abbastanza in Occidente e le multinazionali americane scoprirono il giacimento di talenti addestrati nella gemella indiana della Silicon Valley, cioè a Bangalore. Fu uno shock culturale, scoprire questa versione futurista dell’India. Improvvisamente s’impose un’altra narrazione, quella del miracolo indiano: tecnologico ed economico. Ci fu un altro fenomeno, Bollywood, a portare dentro le nostre sale cinematografiche e nell’immaginario occidentale un Indian Dream fatto di un «masala» (impasto) di ingredienti abilmente selezionati: i colori e i profumi, le musiche e le tradizioni, i balli e i costumi dell’India Eterna, dell’India turistica del Taj Mahal e del Rajasthan, insieme con una modernità astuta e un talento narrativo straripante.
Grazie a una intellighenzia anglofona, da Naipaul a Salman Rushdie, da Amitav Gosh a Suketu Mehta, anche le élite colte dell’Occidente si re-innamorarono di un’India ancestrale e modernissima al tempo stesso, condensato delle massime contraddizioni del nostro tempo, deposito di miti e di sofferenze arcaiche ma aggiornatissima e cosmopolita. Al confine tra letteratura e politica, o tra scienza e militanza, due donne come Arundhati Roy e Vandana Shiva sono state adottate come due profetesse della sinistra radicale in Occidente: in un certo senso ci restituivano intatto e prezioso il «nostro» mito di un’India primitiva e innocente, sacra e pura, aggredita e saccheggiata dalle nostre multinazionali, da un capitalismo feroce e spietato.
È qui che irrompe alla fine Narendra Modi, e scompagina un po’ tutto, mettendoci di nuovo a disagio. Che cosa rimane della Speranza Indiana, nelle mani di un governo reazionario e bigotto, con una maggioranza induista intollerante, pronta a usare la censura per zittire le voci del dissenso interno? Tra le varie versioni dell’India come laboratorio c’è anche questa. Fu in India che il terrorismo islamico fece le prove generali per l’11 settembre 2001, molto prima di colpire l’America. È in India che il partito laico del Congresso è stato travolto da un revival di fondamentalismo induista, anche in chiave anti-musulmana ma non solo (il Congresso è stato vittima anzitutto di se stesso, della propria inefficienza e corruzione). È in India che alcuni ingredienti del populismo moderno si sono manifestati in anticipo su tante liberaldemocrazie occidentali.
La geografia che definisce l’India è prima di tutto una mappa socio-economica interna. La questione delle caste non è mai stata risolta né superata. Anzi sotto Modi riesplode in modo acuto. Eppure il suo partito induista, il Bharatiya Janata Party (Bjp), per essere coerente con la propria ideologia ha bisogno di coalizzare tutti gli induisti, non solo le caste superiori. Ci riesce solo in parte. Un episodio emblematico ha visto come protagonista Yogi Adityanath, l’estremista indù che lo stesso Modi ha voluto come governatore dello Stato dell’Uttar Pradesh. Alla vigilia della visita di Adityanath in un villaggio del suo Stato, dei solerti funzionari hanno ordinato ai paesani delle caste inferiori di lavarsi con sapone e shampoo per non sporcare il governatore. Un comportamento che evoca il concetto delle caste «impure», dette per l’appunto «intoccabili». La tensione tra caste dominanti e caste inferiori continua a scatenare episodi di intolleranza e perfino di violenza omicida. Tra i protagonisti nello Stato dell’Uttar Pradesh ci sono membri della casta superiore dei Rajput, a cui appartiene lo stesso governatore.
Un episodio è stato raccontato dal giornalista indiano Nilanjan Mukhopadhyay, autore di una biografia di Modi. È avvenuto nell’aprile 2017 nel villaggio di Shabirpur, a 180 km da New Delhi, ed ha avuto come protagonisti due poli estremi del sistema delle caste, Dalit e Rajput. Il termine Dalit, che nell’antico sanscrito significa «oppressi» e in hindi si traduce in «spezzati», designa una vasta categoria di caste inferiori. L’uso di quel termine è stato vietato per legge ma il suo equivalente («caste arretrate») nel censimento del 2011 corrisponde al 17% della popolazione indiane. I Dalit di Shabirpur stavano celebrando l’inaugurazione di una statua per l’anniversario della nascita di Bhim Rao Ambedkar: uno dei padri dell’India moderna, architetto della Costituzione, lui stesso un Dalit, fautore della messa al bando del sistema delle caste. Ma i Rajput del villaggio si sono sentiti offesi dal fatto che la statua di Ambedkar col suo dito puntato poteva «indicare le donne delle caste superiori». Sono scoppiati scontri tra le fazioni, con un morto e venti feriti, e diverse case dei Dalit incendiate. È questa geografia interna, tortuosa e conflittuale, la contraddizione del nazionalpopulismo di Modi. Per affermarsi il Bjp deve essere il partito di tutti gli induisti; ma non è riuscito a fare accettare alle caste superiori il superamento di queste discriminazioni ancestrali.