Cattolico vuol dire universale. La Chiesa cattolica lo è davvero? Mai come oggi è lecito dubitarlo. La traiettoria della Santa Romana Chiesa sembra sempre più lontana dall’afflato ecumenico inscritto nella sua ragion d’essere. E sempre più segnata da fratture intestine che ne disegnano una geografia estremamente frastagliata. Perché al fondo, nel suo ambito spirituale, anche la Chiesa è un’istituzione di potere radicata nel tempo e nello spazio. Soggetto geopolitico imperiale per nascita e vocazione. Oggi in evidente crisi. E come in quasi tutti gli imperi, religiosi inclusi, la crisi si misura e si espande dal centro. Dalla carenza di governo e di impulso alla coesione che dovrebbe essere alla base dell’impegno e della missione pontificale.
La parabola del papato di Francesco è ormai sufficientemente lunga per consentirne una prima valutazione. Qui abbozzata sotto il profilo squisitamente geopolitico. Non ci addentriamo nelle diatribe teologiche, tantomeno negli scandali finanziari, sessuali, di costume. Insomma, prescindiamo dai fenomeni esteriori e transeunti tipici di ogni organizzazione umana, per quanto ispirata possa ritenersi. Notiamo subito tre fenomeni paralleli e insieme connessi. Primo: il secco indebolimento dell’autorità papale, ultimo monarca assoluto della storia occidentale, come tale anche capo di Stato. Secondo e conseguente, o comunque correlato: la tendenza delle conferenze episcopali a costituirsi di fatto in Chiese nazionali più o meno autonome da Roma. Terzo: la difficoltà a contrastare l’espansione concorrente delle «sette evangelicali» (definizione tipicamente cattolica delle Chiese d’ispirazione neopentecostale, di matrice originaria americana ma ormai presenti dappertutto, Europa e Svizzera comprese).
Quanto al primo punto. Francesco ha fatto della contestazione del carattere costantiniano della Chiesa il suo principio geopolitico di base. Per costantinismo, in riferimento all’omonimo imperatore romano lodato in particolare da Paolo VI e che Benedetto XVI venera come «Costantino il Grande», s’intende la dimensione temporale del potere papale. Il senso del parallelo fra impero romano e impero papale fu ben colto dal teologo domenicano Yves Congar, che l’11 ottobre 1962, giorno d’apertura del Concilio Vaticano II, annotava sul diario: «Avverto tutto il peso, mai denunciato, del tempo in cui la Chiesa aveva stretti legami col feudalesimo, deteneva il potere temporale, e papi e vescovi erano signori che tenevano corte, proteggevano gli artisti, pretendevano uno sfarzo simile a quello dei Cesari. Tutto questo la Chiesa di Roma non l’ha mai ripudiato».
Fino a Francesco, che in nome della «Chiesa in uscita», missionaria, ha voluto tagliare i ponti con un passato che non vuole passare. A meno di non virare il cattolicesimo in peculiare protestantesimo. Accusa che al papa viene mossa da buona parte del clero, non solo quello di curia. Con ciò starebbe indebolendo la sua autorità e l’efficacia del suo governo delle strutture ecclesiastiche, che pure gli perterrebbe.
Punto due. Francesco guarda il mondo dalla periferia. È profondamente argentino, culturalmente e politicamente segnato dall’esperienza del peronismo. Del suo ruolo come vescovo di Roma scarsa è la traccia, quasi la sua diocesi primaria non l’interessasse. Ciò ha contribuito ad accelerare la tendenza di alcuni vescovi a muoversi per proprio conto. Fino a teorizzare la tesi del «Vaticano mobile», di una Chiesa policentrica. Che cosa unisce oggi, d’altronde, un cattolico polacco e uno sudamericano, un africano a un italiano? Davvero poco. Tanto poco da mettere in questione l’universalità della Chiesa e la legittimità del suo centro romano.
Infine la sfida dei cristianesimi dell’«emozione», come in Vaticano si suole classificare criticamente le confessioni di derivazione più o meno protestante che fioriscono oggi specialmente nel Sud del mondo. Insieme alla penetrazione musulmana, questa religiosità di nuovo stampo sfida e tende a sconfiggere il cattolicesimo persino nei suoi tradizionali bastioni del Terzo mondo, compresi quelli latinoamericani specialmente cari a papa Bergoglio. Con oltre mezzo miliardo di fedeli tali gruppi neopentecostali sono la seconda galassia cristiana dopo i cattolici (1 miliardo e 300 milioni circa, ossia il 18% della popolazione planetaria) davanti ai protestanti stabiliti (340 milioni) e agli ortodossi (200 milioni).
Giusto allora porsi la questione radicale: sopravvivrà la Chiesa cattolica alla fine di questo secolo? O ne avremo più d’una, un arcipelago di Chiese «cattoliche» formalizzate come tali? E che cosa potrebbe comportare una sequela di scismi capaci di dividere il mondo cattolico? Ancora, che cosa resterà della radice occidentale del cattolicesimo romano? In che misura e in chi modo la tendenza disgregatrice influirà sugli assetti geopolitici mondiali? Tutte domande che certamente affaticheranno i successori di Francesco per molto tempo a venire. E che il papa attuale sembra voler aggirare.
Verso un arcipelago di Chiese cattoliche?
L’istituzione millenaria versa in una grave crisi. Negli ultimi anni l’autorità papale si è fortemente indebolita, è cresciuta l’autonomia delle conferenze episcopali e si è verificata una decisa espansione delle «sette evangelicali»
/ 26.07.2021
di Lucio Caracciolo
di Lucio Caracciolo