Verso la riconciliazione della Palestina

L’intesa – Hamas ha annunciato di avere raggiunto un accordo con il gruppo rivale palestinese al Fatah con il patrocinio egiziano
/ 30.10.2017
di Marcella Emiliani

La notizia, il 17 settembre scorso, è passata un po’ sotto silenzio. Il giorno dopo a New York si sarebbe aperta l’Assemblea generale dell’Onu e tutta la stampa internazionale era in febbrile attesa dei «pronunciamenti» del presidente degli Stati Uniti Donald Trump in merito alle due minacce nucleari, quella coreana e la iraniana, che inquietano le sue notti e non solo le sue. Proprio alla vigilia di tanto evento, dal Cairo Hamas annunciava ufficialmente di essere disponibile a smantellare il Comitato amministrativo di Gaza, creato in  marzo per gestire la grave crisi umanitaria nella Striscia, ad indire nuove elezioni generali e intavolare trattative dirette di riconciliazione con al-Fatah. Al-Fatah – ricordiamolo – è il partito che governa quel che resta dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) in Cisgiordania e il perno sempre di quel che resta dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) che dovrebbe rappresentare l’istituzione-ombrello per tutte le formazioni che lottano, appunto, per la liberazione della Palestina. Al-Fatah, l’Autorità nazionale e l’Olp sono guidate dal presidente dell’Anp Mahmoud Abbas, nome di battaglia Abu Mazen.

Hamas non ha mai voluto far parte dell’Olp, non ha mai accettato i peraltro falliti Accordi di Oslo stipulati nel 1993 dall’ Olp e dallo Stato di Israele, non ha mai riconosciuto il diritto all’esistenza dello Stato ebraico ed esattamente dieci anni fa ha cacciato, armi alla mano, tutti i rappresentanti di al-Fatah dalla Striscia di Gaza. E dal 2007 ad oggi la frattura nel fronte palestinese non ha fatto altro che aggravarsi, fornendo ad Israele un argomento fin troppo facile per rifiutare qualsiasi tavolo di negoziato coi palestinesi medesimi. «Chi rappresenta cosa?» è l’ interrogativo ricorrente che si pongono da allora i premier israeliani di fronte ad uno schieramento palestinese così diviso e a nulla sono valse le pressioni di ben tre presidenti degli Stati Uniti, da George W. Bush a Barak Obama a Donald Trump per portare un capo del governo israeliano a trattare almeno con chi Israele lo ha riconosciuto, alias Mahmoud Abbas-Abu Mazen.

Di Hamas in sede di trattative internazionali non si parla nemmeno perché è considerata un’organizzazione terroristica da Israele, dagli Usa e dall’Unione Europea, per il suo fine dichiarato di voler distruggere lo Stato ebraico e per i suoi legami storici con l’Iran, gli Hezbollah libanesi, il regime di Bashar al-Assad in Siria, suoi principali fornitori di armi e aiuti finanziari, perlomeno fino al 2011. Inutile poi ricordare che da Gaza negli ultimi dieci anni sono regolarmente partiti razzi sempre più potenti alla volta delle città israeliane che hanno provocato non solo il totale isolamento della Striscia da parte di Israele, ma nel 2014 anche una guerra vera e propria che ha semi-raso al suolo tutte le infrastrutture della Striscia medesima.

Questo breve résumé storico era necessario per dare la giusta prospettiva alla notizia della riappacificazione tra Hamas e al-Fatah che è poi ufficialmente avvenuta al Cairo il 12 ottobre scorso salutata con manifestazioni di gioia tanto a Gaza (l’Hamastan) quanto in Cisgiordania (la Fatahland). Il primo passo, insomma, è stato compiuto. Ma cosa significhi tutto questo è troppo presto per dirlo. I principali tentativi di riavvicinamento erano già avvenuti nel 2011 e nel 2014 ed erano miseramente falliti. La novella riappacificazione perciò dovrà essere «rodata» sul terreno attraverso un calendario di verifiche a breve scadenza per arrivare al 1. dicembre quando l’Autorità nazionale palestinese dovrebbe farsi totalmente carico dell’amministrazione di Gaza e dei suoi funzionari, del controllo del punto d’accesso più problematico alla Striscia dall’Egitto, Rafah, peraltro già monitorato dall’Eubam, (European Union Border Assistance Mission, la missione di assistenza della frontiera dell’Unione europea) e degli apparati di sicurezza.

Già il 2 ottobre scorso il primo ministro dell’Anp, Rami Handallah, ha fatto ritorno a Gaza bene accolto dalla popolazione e persino dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) che a Gaza ha affiancato nell’ultimo decennio Hamas nella sua opposizione ad al-Fatah, e nella lotta contro Israele a suon di lancio di razzi. A Gaza City il Fplp aveva addirittura allestito una tenda in stile primavere arabe per sostenere i negoziatori del Cairo. Negoziatori che il 21 novembre dovrebbero tornare ad incontrarsi per verificare non solo come affrontare i principali problemi di gestione amministrativa, ma anche e soprattutto l’organizzazione di elezioni per l’Anp riunificata e quella che i consiglieri di Abu Mazen il 12 ottobre – nell’euforia del momento – chiamavano con pudore «la questione delle armi»

Detto in parole chiare: la questione delle Brigate Ezzedine al-Qassam alias il braccio armato di Hamas che ormai domina l’organizzazione visto che il nuovo leader di Gaza, Yehiya Sinwar, eletto in carica il 13 febbraio scorso, e il suo vice Saleh al-Aruri (quello che ha negoziato l’accordo con Fatah al Cairo) provengono entrambi dai ranghi delle Brigate al-Qassam. Ismail Haniyeh, ex primo ministro cioè leader di Hamas nella Striscia, è invece diventato il supremo capo politico dell’organizzazione al posto di Khaled Meshal, già ospite fisso di Bashar al-Assad a Damasco, poi transitato a Doha in Qatar, ora defilato nelle nebbie, essendo comunque in cima alla lista dei most wanted dead or alive di Israele. Sono invece transitati per le galere israeliane Yehiya Sinwar e Saleh al-Aruri, liberati con altri 1000 prigionieri palestinesi nel 2011 in uno scambio che consentì di tornare a casa a Gilad Shalit, il giovane militare israeliano rapito sul confine con Gaza il 25 giugno 2006.

Ebbene, se all’indomani dello scoppio della primavera araba in Siria Hamas ha preso le distanze da Damasco, appena entrato in carica Sinwar ha spedito una delegazione segreta a Teheran (alleato storico della Siria) per rianimare il legame con l’Iran e sollecitare aiuti, diventati ancora più urgenti dopo lo scorso giugno, quando il Qatar – che ha sempre sostenuto finanziariamente Hamas – è stato ostracizzato dall’Arabia Saudita e dagli altri Emirati del Golfo in quanto «sostenitore del terrorismo ed alleato dell’Iran».

Detto in altre parole, a spingere Hamas di nuovo nelle braccia di al-Fatah sono stati un isolamento e una carenza di mezzi quali mai aveva sperimentato prima, complicati dal caos e dalle guerre seguite alle primavere del 2011. E sebbene affermi per bocca del suo lider maximo Hanyeh di essere «disposto a tutto» per salvaguardare l’accordo con l’Anp, in realtà non sembra affatto esserlo. Potrà pure fare concessioni sulla sorte dell’elefantiaco apparato burocratico che ha gestito negli ultimi dieci anni la Striscia: 45’000 impiegati e funzionari che assorbono il 17% del magro bilancio dell’Anp, ma non intende smantellare le Brigate Ezzedine al-Qassam. E lo ha detto chiaro e tondo il 19 ottobre scorso il leader di Hamas a Gaza Sinwar, che ha escluso che la sua organizzazione possa riconoscere Israele, tagliare definitivamente i legami con Teheran e smantellate le Brigate al-Qassam come gli chiedono con sempre maggior insistenza al-Fatah, Israele e gli Usa.

La patata bollente a questo punto è nelle mani del presidente dell’Anp Mahmoud Abbas. Anche lui ha contribuito a «convincere» Hamas ad andare a Canossa non pagando ad Israele le bollette della luce per la Striscia e diminuendo drasticamente da marzo lo stipendio dei 45’000 impiegati pubblici di Gaza. Ma ora farsi carico dei problemi della Striscia e dei niet di Hamas non sarà uno scherzo sotto gli occhi di Israele e degli Stati Uniti che hanno garantito all’operazione-riconciliazione un tacito consenso, ma ora esigono da Mahmoud Abbas quello che non hanno mai ottenuto da Hamas. Ma sta a guardare anche l’Egitto, che disinnescando la minaccia Hamas spera di spezzare il legame tra Gaza e il terrorismo nella penisola del Sinai che continua a falcidiare i suoi militari e le sue forze di sicurezza. E stanno a guardare anche gli Emirati arabi uniti e l’Arabia Saudita, che sono disponibili a subentrare al Qatar come fonte di aiuti, ma con una rottura evidente e conclamata tra Hamas e l’Iran per spezzare anche la contiguità territoriale del Crescente sciita che da Teheran via Iraq, Siria, Libano e Gaza raggiunge il Mediterraneo. Il fronte sunnita ha già pronto anche l’uomo che potrà farsi carico della gestione della Striscia una volta che Hamas abbia smantellato il suo braccio armato: Mohammed Dahlan, già leader di al-Fatah a Gaza dove è nato e dal 2007 gradito ospite di Abu Dhabi. Dietro la riconciliazione, insomma, i principali attori del Medio Oriente stanno tutelando una volta di più i propri interessi.